Quando nel 2013 sono andati in onda i sette episodi della prima stagione di Top of the Lake – scritta da Jane Campion e Gerard Lee, diretta da Campion e Garth Davis, co-prodotta da BBC e Sundance – le serie televisive vivevano il loro momento di picco creativo. Solo in quell’anno avevano esordito serie come The Village, Orange is the New Black e Rectify le quali, sull’onda lunga dalle quality series dei primi anni zero, cercavano di combinare la cura estrema dell’elemento visivo con un realismo mimetico e una riflessione socio-politica non banale. Quattro anni dopo, il panorama appare notevolmente mutato: la serialità ha raggiunto un pubblico vastissimo e Netflix ha trasformato non solo le modalità di ricezione ma ancor di più, e non in meglio, quelle della produzione estetica. Al di là delle gigantesche produzioni alla Game of Thrones (2011) o dei progetti di autorialità pura come Twin Peaks: The Return (2017), gli ultimi due-tre anni mostrano perlopiù un appiattimento dei linguaggi e un conformismo poetico a tratti desolante: serie che si accontentano di essere ben fatte, ovvero ben girate, visivamente di impatto e con un cast di richiamo, ma che non osano nulla o quasi sul piano del racconto e dello sguardo sul reale.
In questo contesto la seconda stagione della serie di Jane Campion, intitolata Top of the Lake: China Girl e andata in onda in sei episodi nell’estate 2017, ha avuto una risonanza decisamente inferiore alla prima, oscurata anche dal fatto che la sua attrice protagonista, Elisabeth Moss, era apparsa da poco sullo schermo in un lavoro invece subito acclamato, The Handmaid’s Tale (2017). Tuttavia, China Girl è una serie che, sebbene riveli diversi limiti e non si attesti sui livelli – molto alti – della prima stagione, merita di essere analizzata con attenzione. Come la prima stagione anche China Girl è un mistery drama in cui la detective Robin Griffin (Elisabeth Moss) è impegnata in un caso di cronaca che coinvolge anche il suo privato. Ambientata a Sydney quattro anni dopo gli eventi della prima stagione (che si svolgevano invece in un paese remoto della Nuova Zelanda), la serie racconta il tentativo di identificare il cadavere di una giovane donna asiatica ritrovato sulla spiaggia in una valigia portata dal mare. Le due linee narrative portanti della serie, che si intrecciano solo alla fine, riguardano da un lato l’indagine poliziesca (che dalla ragazza uccisa riesce a risalire a un bordello in cui lavorano giovanissime donne asiatiche), dall’altro il rapporto fra Robin e la figlia Mary (Alice Englert) ormai diciassettenne.
Sappiamo dalla prima stagione che, frutto di uno stupro di gruppo subito da Robin a quindici anni, la ragazza era stata abbandonata alla nascita; adottata, ora vive col padre perché la madre Julia (Nicole Kidman) si è innamorata di una collega ed è andata a vivere con lei. Come nel caso della dodicenne incinta scomparsa nella prima stagione, anche qui la trama ha origine da una violenza subita dal corpo femminile: tuttavia, in questa seconda stagione, le declinazioni del femminile sono molto più numerose e varie. All’interno di un impianto schiettamente crime-thriller – l’indagine su una ragazzina morta ha ovviamente come archetipo Laura Palmer ma anche numerosi consimili contemporanei, ad esempio The Killing (2011) – il merito maggiore della serie sta infatti nel mettere in scena i diversi ruoli, biologici e sociali, che la donna assume e subisce nella società occidentale contemporanea. Un discorso che la serialità ha iniziato con la sottigliezza storica di Mad Men (2007) e ha proseguito con la militanza di Girls (2012), e che China Girl radicalizza costruendo narrativamente ogni personaggio in base al suo rapporto con la femminilità, su come la vivono le donne e su come ci si relazionano gli uomini. Impostando la sua riflessione sui rapporti sociali fra i sessi a partire soprattutto dalle due protagoniste – Robin, appunto, e la sua collega Miranda (Gwendoline Christie) –, nel corso delle sette puntate la serie affronta e mette in scena vari tipi di relazioni sentimentali e sessuali (di matrimoni in crisi, extraconiugali, occasionali, a pagamento, asimmetriche), lavorative, ma anche inter-femminili (tra madre e famiglia, di amicizia).
La predominanza di questo taglio, narrativo e di sguardo, assume una pregnanza particolare se ci concentriamo in particolare su tre aspetti. Il primo riguarda i modi di manifestazione del maschile, che nella serie sono di natura prevalentemente rapace. Gli uomini sono infatti portatori di violenza in ogni loro atteggiamento: dagli sguardi derisori o ammiccanti, passando per le parole schiettamente insultanti, fino alle aggressioni fisiche e sessuali vere e proprie. Un esempio emblematico di questa pervicace misoginia si trova nelle parole di Alex, il ragazzo quarantunenne di Mary, che rivolgendosi a una persona vittima di stupro afferma: “For the psyche, rape is a catastrophe. You never recover from that shit” (ep. 4). Il ruolo del maschile è quindi quello di minimizzare e screditare ogni sforzo femminile, per ribadirne una sostanziale dipendenza dall’uomo. A maggior ragione nel caso di Robin, il cui potere sul lavoro è inaccettabile per i suoi colleghi e sottoposti maschi.
Il secondo grande tema della serie è quello della maternità: quella biologica ma negata di Robin e quella adottiva e difficilissima di Julia, ma soprattutto quella naturalmente impossibile. Il corpo delle ragazze asiatiche del bordello, infatti, è usato anche per concepire, a pagamento, i figli delle donne sterili. Il tema della surrogacy a pagamento impone una riflessione su una pratica che, come la prostituzione, si basa su una scelta solo apparentemente libera, e legata invece al ricatto della povertà. È per questo che una delle svolte narrative finali riguarda proprio la possibilità di rompere questo vincolo (“Their bodies, their wombs”, si dice nell’episodio finale).
In questo scenario di fallimento relazionale (in cui l’unico spazio possibile per l’amore sembra quello dell’affair e l’unica maternità quella retrospettiva in video) si innesta il terzo tema, quello delle relazioni interfemminili: il rapporto fra due donne così diverse come Robin e Miranda è possibile solo abbandonando la ricerca di un’amicizia superficiale e incontrandosi sul terreno comune della propria esperienza femminile. La solidarietà fra persone che vivono le stesse condizioni di svantaggio e di pericolo può opporsi non solo alla violenza maschile ma anche alla gelosia, umana troppo umana, che una concezione esclusiva e possessiva della maternità porta con sé. China Girl è stata da più parti criticata per questa ossessività tematica, per la mancanza di realismo (rispetto alla prima stagione) nel descrivere un mondo in cui l’onnipresente misoginia è addirittura ostentata perché, culturalmente e socialmente accettata, non costa niente.
In realtà questa realtà sociale così angosciante e cupa è la rappresentazione, sicuramente estremizzata, di una visione del mondo e dei rapporti umani molto precisa e tutt’altro che incredibile. Il limite della serie sta invece proprio nel non aver avuto il coraggio di seguire fino in fondo la strada tracciata. Nelle ultime due puntate, infatti, la serie sceglie purtroppo di rifugiarsi in maniera rassicurante nei canoni del crime drama: il dolore diventa così contingente più che strutturale, e vira al melodrammatico più che al tragico. Una serie capace di grandi scene e di grandi squarci che finisce come un thriller qualsiasi è un’occasione in parte persa, ma mostra anche quanto sia ancora più difficile, oggi, fare una serie diversa. Ciononostante, e proprio in virtù di questo tentativo, il giudizio sulla serie resta positivo, perché il nostro presente ha sempre più bisogno di prodotti estetici che affrontino i temi etici e politici chiave della nostra contemporaneità proponendo uno sguardo diverso sul reale.
Riferimenti bibliografici
J. Feuer, Quality Drama in the US: The New ‘Golden Age’?, in M. Hilmes, a cura di, The Television History Book, BFI, London 2003.
S. Gilbert, Strange Confusion of Top of the Lake: China Girl, in “The Atlantic”, settembre 2017.
G. Rossini, La serie classica: istituzioni televisive e forme narrative, in “Between”, n. IV, 8 (2014).