Nel suo libro sul cinema documentario, Guy Gauthier distingueva il documentarista dal turista e dal reporter; questi ultimi due, infatti, si limitano a gettare sul mondo uno sguardo di superficie, da lontano; uno sguardo a volte forse acuto, magari ammantato di stupore e curiosità, forse attraversato da una sincera volontà di sapere; ma uno sguardo che alla fine manca del tempo necessario per creare veramente un rapporto con quegli spazi, i luoghi e i corpi che lo vivono. Ma la distinzione di Gauthier nasce da un’esigenza precisa: quella che lega insieme il viaggio, l’esplorazione, la scoperta alla attività specifica del cinema del reale, al viaggiare come origine stessa del cinema.

L’esplorazione come spinta originaria di un cinema che però, appunto, non accetta né persegue lo sguardo di superficie, ma che accetta, questo sì, il proprio stupore, la propria fascinazione, che lo spinge – perché no? – ad inventare storie, raccontare il mondo sotto forma di favola, affascinante proprio perché visibile. È forse questo aspetto che fa del cinema (ma anche della letteratura, dei racconti di viaggio, dei programmi televisivi) di Folco Quilici una forma a sé, e in un certo senso originaria, quasi archetipica del cinema stesso.

Qualche anno fa, Tullio Kezich, scrivendo del cinema di Quilici, lo aveva detto chiaramente: se qualcosa caratterizzava quel cinema, quel desiderio di viaggi e immagini, era proprio lo sguardo del fanciullo, come diceva Charles Baudelaire ne Il viaggio: «Per il ragazzo, amante delle mappe e delle stampe, l´universo è pari al suo smisurato appetito». Ecco: viaggiare con lo sguardo del fanciullo, desideroso dunque di fare del mondo il teatro del suo vasto desiderio. Ecco allora tornare alla mente le immagini di Fratello mare (1975), in cui il vecchio polinesiano, disgustato dal paesaggio totalmente turistizzato delle isole della sua infanzia, decide di partire, con la mente e con il corpo, e tornare bambino, raccontare le storie delle proprie isole, le storie dei delfini e dei pescatori, le storie che il mare raccoglie e trasporta, le storie ormai dimenticate nei pacchetti per i ricchi turisti occidentali. Per far questo, il vecchio pescatore ritorna alla sua infanzia e ridiventa Tepoo, il fanciullo che scopre ed esplora, che osserva il mare come se fosse un grande schermo, carico di sogni e racconti.

Tepoo, il personaggio di Fratello mare sembra allora riprendere le mosse del piccolo protagonista di Ti-koyo e il suo pescecane (1962), dove ancora una volta la Polinesia Francese diventa il teatro di una narrazione fiabesca, di una storia di scoperta e di stupore e in cui il mare, l’acqua trasparente e al tempo stesso carica di immagini in potenza sono il motore e lo spazio del cinema che in essi si crea. Lo sguardo del fanciullo esplora e al tempo stesso re-immagina il mondo che osserva e scopre; è questo il movimento del cinema di Quilici: quello di un’immagine reale che non cessa di sdoppiarsi nella propria immaginazione fantastica e mitica.

Rivedendo oggi le immagini di Sesto continente (1954), che è il primo film al mondo con riprese sottomarine a colori, si rimane colpiti certo dal particolare rapporto tra uomo e natura, in cui il cacciatore e lo squalo sembrano essere intenti in un gioco mortale che affondano il suo diritto e le sue radici nella notte dei tempi, ma, al tempo stesso, ci si immerge, letteralmente, nella forza del racconto archetipico, in cui un pugno di uomini e donne (presentati all’inizio uno ad uno, come in un classico film d’avventure), lottano contro le forze primigenie della natura. Il racconto cinematografico di una spedizione scientifica diventa per Quilici (che nel film è regista e personaggio) l’occasione per raccontare, per fare del mare e dei suoi abitanti i personaggi di storie che hanno origini lontane e che il cinema (e il mare) riescono a riattivare.

Due anni dopo Sesto continente, Jacques Cousteau realizzerà anch’egli (con l’aiuto di Louis Malle) un film su una spedizione scientifica, Il mondo del silenzio (1956), dando origine al percorso cinematografico che renderà universalmente famoso il grande oceanografo francese; ma a pensarci bene la somiglianza finisce qui. Cousteau infatti – in questo film come in altri (a partire da Il mondo senza sole, 1964), disegna il proprio rapporto con le profondità marine come un rapporto fondato sul mistero, sulla sproporzione tra uomo e natura, sullo scacco dell’uomo che cerca ostinatamente di conoscere, di esplorare il mondo, di dare conto di un reale che rimane sempre ineffabile, irraggiungibile nella sua totalità. Se il regista francese quindi costruisce dei grandi racconti sulla sfida del vedere, il documentarista ferrarese risponde alla sfida del reale attraverso la forza e la potenza dell’affabulazione.

I film di Quilici, ma anche i suoi racconti, i suoi libri divulgativi, i suoi programmi televisivi, giocano infatti sulla dialettica aperta tra due forme, due modalità di racconto del reale che in essi si agita: da una parte il racconto scientifico o storico, rigoroso e realizzato grazie alle collaborazioni preziose di studiosi come Claude Lévi-Strauss o Fernand Braudel – con cui Quilici realizza la serie L’uomo europeo (1976-1979) e Mediterraneo (1972-1978); dall’altra attraverso la fantasia fanciullesca che fa del mondo e del reale il teatro di storie e racconti, favole e miti. Se questa dialettica, feconda e mai risolta, attraversa tutta l’opera multiforme di Quilici, è attraverso uno dei titoli più straordinari e longevi della carriera del regista, L’Italia vista dal cielo – una serie prodotta dalla Esso, di 14 lungometraggi documentari, diretti da Quilici tra il 1966 e il 1978 – che essa prende la sua forma più affascinante.

La serie di documentari dedicati ognuno ad una regione italiana, infatti, si sviluppa, come il titolo rivela, da una serie di attraversamenti aerei del paesaggio italiano. Prima di scendere a terra, di esplorare luoghi e borghi, raccontare riti e culture multiformi, la macchina da presa accarezza dall’alto, getta uno sguardo che mappa il territorio scoprendone il disegno nascosto e invisibile da terra. Lo spazio diventa allora uno spazio meraviglioso, misterioso, letteralmente “mai visto”. Ma questa superficie inedita diventa poi la tela su cui il racconto si dipana, le storie nascono e si incrociano. Ogni documentario infatti ha un testo quasi romanzesco, scritto di volta in volta da scrittori e intellettuali italiani: Sciascia per la Sicilia, Cesare Brandi per L’Umbria, Mario Praz per il Lazio, Italo Calvino per la Liguria e così via… questo dispositivo narrativo-visuale ricorre in ogni episodio della serie, facendo dei documentari sull’Italia dei veri e propri esempi della capacità del reale di farsi generatore di storie e racconti, di favole e miti. Come il mare, la terra racconta e facendo nascere o rinascere questi racconti, noi possiamo abitarla con uno sguardo più ricco, profondo (e anche incantato) di quello del turista o del reporter.

Riferimenti bibliografici
C. Baudelaire, Il viaggio, in I fiori del male, Einaudi, Torino 2014.
I. Caputi, Il cinema di Folco Quilici, Bianco e nero/CSC, Roma 2000.
G. Gauthier, Storie e pratiche del documentario, Lindau, Torino 2009.

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