Una ragazza entra in una grande casa di campagna abbandonata. La macchina da presa l’anticipa e inquadra il suo volto che si aggira inquieto. Nel suo avanzare nervoso, la ragazza cerca la presenza di qualcosa. Scopriremo che si tratterà del fantasma del fratello gemello morto da poco. È la ricerca di un incontro impossibile, dei segni della presenza del morto, del suo ritorno (il fantasma è un revenant). Segni che anche quando si manifestano non si sa a cosa si riferiscono né a chi appartengono. Trovare il fantasma, decifrarne i segni è la condizione – crede la ragazza – per riprendere a vivere, per liberarsi da quel “doppio” con cui condivideva una fragilità cardiaca. Ma i segni del fantasma non liberano, non libereranno mai. Impediscono invece al soggetto di accedere alla vita e, in questo caso, di elaborare il lutto. Il fantasma aspira il soggetto, lo ammalia, lo tiene sotto scacco, ritarda la sua entrata nel mondo. Ma il fantasma è creato dal soggetto stesso, perché gli consente di proteggersi dalla vita.
Maureen è dunque sospesa, bloccata, tra il doppio e il fantasma, e la loro coincidenza. Sono due elementi costitutivi del cinema stesso in quanto duplicato fantasmatico del mondo. Il cinema come arte di fantomes, fin dalla genesi materiale dell’immagine: “la pellicola proiettata è essa stessa – dice Derrida – un fantasma”. Ma Personal Shopper non ha nessun tratto banalmente metatestuale, nonostante sia disseminato di una moltitudine di schermi. Non è una riflessione sul cinema. E’ semmai una riflessione sul destino del soggetto nella modernità, di cui il cinema è stato la massima espressione. Soggetto che si trova collocato in un mondo dove fantasmi e dispositivi hanno prosciugato ogni immaginario, anestetizzato il desiderio (alimentato dall’interdetto, come viene ricordato ripetutamente dallo scambio di sms con uno “sconosciuto”) e impedito al soggetto la possibilità di un incontro. Che cosa desidera Maureen se non diventare fantasma lei stessa, assorbita nel mondo degli “altri”, lasciando plasmare la sua femminilità ancora acerba da abiti di lusso?
Maureen è americana, vive a Parigi, cura il guardaroba di Kyra, star della moda sempre troppo impegnata. Le compra abiti e gioielli di lusso in giro per l’Europa. Talvolta li indossa per il desiderio di essere un’altra, senza sapere bene chi. Essere un’altra mascherandosi, mettendosi corpetti, abiti scintillanti, scarpe seducenti, dormendo e masturbandosi tra le lenzuola di seta del letto di Kyra. Aspirata dalla seduzione dell’abito (il tratto fantasmatico della merce), non perché questo possa significare aspirare ad una vita altra (nessun immaginario emerge), segnata dal lusso e dalla notorietà, come in una certa tradizione del modernismo dove il mascheramento serviva all’assunzione di una identità altra, definita nei suoi connotati psicosociali (ambire di appartenere a classi sociali elevate, come in molte commedie anni trenta).
L’indossare abiti non intimi, lussuosi e scenografici, che espongono il soggetto allo sguardo mondano e mediatico, consente a Maureen di abitare uno spazio non “proprio” ma neanche specificatamente “altro”, di trasformarsi in un corpo-mannequin per provare in tutto questo l’ebrezza di abitare un universo disidentificante. Maureen non è sé ma non diviene altro: semplicemente aliena se stessa. Abita in una zona sospesa, in cui si smarrisce cercando incontri: come medium con il fantasma del fratello, come personal shopper con l’altro suo “doppio” Kyra, come ragazza con uno sconosciuto. Questo spazio mediano di fatto non media nulla. Maureen è trattenuta in una zona indecidibile, ambivalente, senza aver la forza di scegliere. Maureen non è da nessuna parte.
Il contatto minaccioso con lo sconosciuto esemplifica il tratto elusivo dell’esperienza. La possibilità di un misterioso incontro prende subito la piega di una minaccia persecutoria. Le parole dello sconosciuto, sms a cui la ragazza risponde rapidamente, tendono al controllo, al giocare al gatto con il topo. Maureen è attratta ma allo stesso tempo spaventata. Dietro allo sconosciuto non si celano mistero e seduzione ma dominio e crimine: il fantasma si fa mostro. Si tratta dell’amante di Kyra, che ha ucciso la star, lasciandola riversa a terra in un bagno di sangue. E’ Maureen a scoprirne il corpo in una sequenza dove il mistero si trasforma dapprima in terrore e poi in orrore.
I fantasmi senza immaginario, che compongono la vita di Maureen, alla fine sembrano dissolversi tutti: il fratello, Kyra e anche lo sconosciuto (che viene incarcerato). Ma era solo una illusione perché nel finale, quando Maureen va in Oman dal ragazzo, si ripresenta un segno inattribuibile di presenza fantasmatica, rispetto al quale la ragazza si chiede: “Sei Lewis? O sono io?”.
Se in Sils Maria il gioco del doppio e del fantasma era tenuto vivo dalla pratica attoriale, l’unica capace di incarnare questa zona di ambivalenza nello spazio-tra, in Personal Shopper niente di tutto questo: Maureen è intrappolata come una mosca in una tela di ragno che lei stessa tesse per non precipitare nel vuoto.
Se le virtù medianiche falliscono, se i grandi miti del moderno precipitano, è perché il medium non media più. Non ha più la capacità di dare parola a ciò che da fuori lo colpisce e di cui sono espressione per esempio le opere d’arte, come la pittura di Hilma af Kint e la scrittura di Victor Hugo, di cui Maureen cerca le tracce su tutti i devices che segnano il suo quotidiano. Il medium non media più perché non vede neanche più i segni della presenza del fantasma. Come nella sequenza iniziale, quando siamo solo noi spettatori a vederlo alle spalle della ragazza. Il medium non media, perché i dispositivi non costituiscono la condizione mediana mediante cui emerge il nuovo.
Il film si apre nel tentativo di trovare una presenza che sia segno di qualcosa d’altro e si chiude con la percezione che quel segno dell’altro è una forma dello stesso. Dallo stesso allo stesso: è questo il circuito chiuso nel quale si trova la personal shopper, alimentato dai dispositivi che elidono il fuori e fanno della vita una trappola.
E’ solo nel medium, nel mezzo, come pensa Deleuze, che qualcosa può nascere (perché l’origine è il mezzo). E ciò che nasce possono essere o le forme dell’espressione o il potere dei dispositivi. Il film, partendo dalle prime arriva agli ultimi. Negando l’espressione, il dispositivo nega la possibilità al soggetto di uscire allo scoperto. E il soggetto che non si esprime si ritira.
Dalla potenza dell’espressione al potere dei dispositivi: questo arco del moderno porta al progressivo svuotamento delle figure che lo hanno contrassegnato. Il fantasma, la parvenza, che animava l’immaginario artistico della prima modernità (a cavallo tra Ottocento e Novecento) perché diventava la via d’accesso ad un reale che debordava da tutte le parti, diventa ora ciò che interdice l’accesso alla vita. Prima era lo schermo che schermava, portando a visibilità, ora invece lo schermo è diventato un display di tipo operativo, un dispositivo che non scherma più nulla, che non ha più fuori.
Personal Shopper attraversa tutti i grandi motivi del moderno per riconsegnarceli come guscio vuoto, impossibilitati a fertilizzare alcunché. Il film attraversa forme generiche come ghost story, mistery, thriller, horror, e temi come società dei consumi, feticismo della moda, proliferazione di dispositivi tecnologici, inquietudine esistenziale, tenuti insieme in un amalgama senza risoluzione, senza effetti catartici. Il film è come la sua protagonista, è con Maureen. Non giudica e non libera, da qui la sua originalità.
Ma vicino a Maureen c’è un altro personaggio, apparentemente marginale, eppure il solo capace di indicare un fuori, di ricominciare: è la ragazza del fratello. Fa l’ebanista (artigianato come pratica artistica, lontano da ogni mera operatività), decide di non alimentare fantasmi rinunciando ad inizio film ad entrare nella casa dove ha vissuto con il ragazzo, ed elabora il suo dolore orientandolo verso il suo superamento.
Inizia una nuova storia, riapre il tempo, torna ad amare.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
J. Derrida, Le cinéma et ses fantômes, intervista di A. De Baeque, T. Jousse, in “Cahiers du Cinéma”, n. 556, 2001.