Fin dal primo episodio, Supersex espone una tesi diretta su Rocco Siffredi: per la superstar del porno, “non c’è confine tra il porno e la vita”. Lo dimostra fin dall’inizio una scena di sesso fuori campo al Salon du X di Parigi nel 2004, dopo che l’attore ha annunciato di voler lasciare il mondo della pornografia. Al termine di questa dichiarazione, lo “stallone italiano” incontra una giovane hostess di nome Noemi che gli chiede “di fare il porno con [lui]”. Rocco acconsente brutalmente nella penombra di una stanza vuota, mentre il pubblico voyeuristico si raduna intorno a loro, sbattendo con entusiasmo le vetrate attraverso le quali osservano il loro amplesso meccanico. “Non sei altro che carne”, sussurra Rocco all’orecchio di Noemi, “non sei altro che un pezzo di carne”. L’interpretazione di Alessandro Borghi, che mima uno stralunato automa sessuale, cattura il “demone” – parola di Siffredi – che si impossessa del suo personaggio; lo stesso demone che scuote la barriera tra il potere del sesso nella vita reale e l’atto sessuale filmato. All’inizio di Supersex ci viene così offerta un’indicazione già problematica: la violenza sessuale del personaggio maschile non è opera sua; egli è in preda a impulsi erotici di cui non ha il controllo e la giovane Noemi, ovviamente consenziente, è vittima quanto lui.

Diamo un’occhiata a questo tentativo di giustificazione, che infrange un altro confine dell’industria del porno eterosessuale: quello tra il dominante e il dominato, tra chi vuole soddisfare un bisogno sessuale a tutti i costi e chi subisce questa soddisfazione senza dire una parola. Innanzitutto, la serie Netflix creata da Francesca Manieri, promossa come fedele alla biografia di Rocco Tano, presenta una chiara contraddizione. Se da un lato i sette episodi della serie tv fanno di tutto per mantenere l’indistinguibilità tra vita e pornografia, dall’altro si pongono in netto contrasto con la strategia di comunicazione del pornodivo che, sia in televisione che sui social media, cerca al contrario di ristabilire il confine tra l’una e l’altra. Di cosa si tratta? Da un lato, c’è lo stile rough sex, marchio di fabbrica di Siffredi che gradualmente i supporti tecnici VHS, DVD, siti web, ecc. hanno reso accessibile su scala globale. È un eufemismo dire che i metodi di Siffredi sono degradanti per le donne e che, nella monotonia della loro ininterrotta ripetizione, degradano costantemente i loro partner femminili: insulti, tirate di capelli, strangolamenti, schiaffi, sputi e così via.

Per Siffredi, questo stile hard è sinonimo di passione: la passione del sesso si esprime in questo modo, altrimenti non esiste e il sesso è solo un altro brivido. L’oscenità del corpo dell’altro è solo una conseguenza di questa apparente passione, un contrattempo che scompare dietro la sua manifestazione non ricambiata. Questo da un lato. Dall’altro lato, c’è il Siffredi delle apparizioni pubbliche in televisione, soprattutto in Italia, che presenta un volto completamente diverso: un uomo amabile, quasi un gentiluomo che prospera nella sua professione, suscita risate in un reality show (L’isola dei famosi), provoca empatia familiare sul palco con la moglie e i due figli (di recente anche in Stasera c’è Cattelan). La personalità pubblica di Siffredi si basa su una «himpathy» che, come spiega saggiamente la sociologa Bérénice Hamidi, si riferisce alla «tendenza collettiva a eufemizzare [le] parole e [le] azioni» di uomini il cui scopo è «conquistare e dominare socialmente».

A volte gli si chiede della coesistenza tra la vita da attore porno e quella coniugale. Ma lui separa subito le due cose, dicendo che l’attività pornografica non modifica l’amore che prova per la moglie, in un sentimentalismo toccante la cui verosimiglianza per altre coppie può essere legittimamente messa in discussione. Non mancano le richieste di aneddoti sulle riprese durante queste interviste, sempre più frequenti, ed è vero che Rocco Siffredi risponde di solito con una sincerità sconcertante. Il “re mondiale del porno”, come è conosciuto a Supersex, coglie sempre l’occasione per dare consigli che, pur non appartenendo propriamente all’educazione sessuale, si pongono in continuazione di ciò che i film mostrano crudamente. Questi discorsi sul sesso hanno un coefficiente di competenza che può variare a seconda di dove vengono enunciati, e nel 2015, Siffredi ha addirittura istituito un’università del sesso – la “Siffredi Hard Academy”, con sede a Budapest – dedicata, tra le altre cose, alla formazione di uomini e donne tentati da un’esperienza nell’industria pornografica.

Se consideriamo il primo aspetto dell’immagine di Siffredi, quello del suo stile rough, sarebbe inesatto dire che Supersex non ne parla. È il modo in cui questo stile viene rappresentato nella serie che pone un problema. La violenza nell’atto sessuale, quando viene rappresentata sul set, è sempre catturata molto brevemente, in un breve lasso di tempo che favorisce l’estetizzazione di questa violenza, provocando inevitabilmente una forma di tolleranza nei suoi confronti. Lo si vede anche nelle scene d’amore con Tina, la modella inglese per la quale Rocco ha interrotto la sua carriera per due anni e della quale dirà pubblicamente che è stata proprio lei a fargli conoscere un modo di fare l’amore che si può riassumere in un’espressione fin troppo semplice: “Fammi male”. Anche in questo caso, l’ispirazione dell’attore-regista viene da un’altra parte: un altro modo per scagionare una sessualità brutale che tuttavia continua a esportare in tutto il mondo.

In seguito, la serie tenta la ricostruzione di una sequenza porno diventata stranamente di culto, la cui straordinarietà sta anche nel fatto che può essere riutilizzata senza vere precauzioni formali nell’era del #MeToo. Si tratta di una scena in cui Rocco sodomizza una giovane donna in un bagno e, a un certo punto, immerge la sua testa nella tazza del water mentre tira lo sciacquone, prima di eiaculare sul viso e sui capelli della donna bagnati dall’acqua della latrina. Giovanna Maina ha scritto in questa stessa sede sulla scena, senza ricordare che ne esistono due versioni in Sandy l’insaziabile, il film in cui si svolge la cosiddetta sequenza del water. Si tratta di due scene gemelle, una con Sidonie Lamour, l’altra con Sandy Balestra, il cui nome artistico dà il titolo al film diretto da Siffredi (come un altro, l’infame Trenta maschi per Sandy, realizzato dallo stesso Siffredi due anni prima, nel 1993). Nell’episodio 6 della serie, il regista Matteo Rovere sfoca l’immagine di Rocco che mette la testa della donna nel water, ma Lucia (Jasmine Trinca) è lì a guardare in disparte. In seguito rimprovera l’uomo che nella serie è suo cognato, lamentando il suo disprezzo per le donne. Lucia, però, non è altro che la buona coscienza della serie, la cui prepotenza moralistica annulla l’atroce letteralità di una sequenza che dice tutto sulla pornografia secondo Siffredi: la donna diventa un tutt’uno con la materia fecale che passa attraverso il canale anale dove è alloggiato il suo sesso, ed è destinata a finire dove questa materia arriva, cioè in fondo al water.

Senza dubbio Supersex avrebbe potuto trovare un sotterfugio diverso da un’innocua sfocatura per rendere sensibile la letteralità fecale che è praticamente espressa in Sandy l’insaziabile con la chiarezza di una verità matematica. Quando in alcune trasmissioni televisive viene chiesto a Siffredi come giustifica il suo gesto, egli risponde che era voluto dalla sua partner, che era un desiderio che poteva leggere negli occhi di lei e che lui stava semplicemente mettendo in pratica. Il fatto che lo sguardo dell’attrice non rifletta mai questo desiderio non è un’obiezione. Perché anche nella sua malafede, che consiste ancora una volta nel giustificare un comportamento sessuale più che imbarazzante, Siffredi dà inconsapevolmente una definizione della pornografia mainstream che determina senza sosta il dominio maschile. Questa definizione potrebbe essere riassunta come segue: il pornografo realizza le fantasie sessuali che attribuisce all’altro e, se queste fantasie sono anche le sue, prevede che saranno accettate dal partner.

La particolarità di questa definizione è che si estende ben oltre l’industria del porno, anche se questa la incarna in modo esemplare. Infatti, il presupposto che l’altro accetti un dominio che lo aliena, e che questa alienazione avvenga senza alcuna forma di resistenza, è un presupposto che struttura anche un sistema generale di sfruttamento nel capitalismo globalizzato. Questo è ciò che Jacques Rancière chiama la «scena pornografica» dei nostri «tempi consensuali»: «Ciò che caratterizza la scena pornografica», sostiene Rancière, «è il presupposto che ciò che uno fa all’altro è esattamente ciò che l’altro vuole che gli sia fatto. In questo modo, la pornografia illustra a suo modo la versione liberale del contratto sociale. È per questo che sta sviluppando il suo impero visivo al ritmo del neoliberismo consensuale».

La diagnosi di Rancière non pretende di coprire l’intera varietà di produzioni pornografiche, soprattutto quelle considerate indipendenti, femministe o trans, che i porn studies investono nella ricerca di nuove soggettività. Il suo obiettivo principale è descrivere il funzionamento dell’«impero visivo» del porno, senza entrare in dibattiti sulla causalità tra ciò che la sua manifestazione dominante ci mostra e la miseria sessuale che inevitabilmente genera. E questo «impero visivo» si basa su relazioni di dominio che esistono altrove – nel mondo del lavoro, ad esempio, e nel suo «patto sociale» diseguale – anche se il lavoro pornografico, con i suoi meccanismi di casualizzazione e umiliazione, ne è senza dubbio un esempio paradigmatico. Supersex si limita a eludere questo evidente sistema di sfruttamento, e i pochi scorci che la serie concede riducono i personaggi femminili secondari a pura passività, servendo solo come ricettacoli del magnetismo sessuale di Rocco.

Una prevedibile diatriba si rivolge a chi denuncia il funzionamento del mondo pornografico in questo modo, e Siffredi è il primo a parlarne: queste critiche al porno sono l’espressione di una frustrazione inespressa, e appartengono a una lunga tradizione abolizionista che mira ad attenuare la dimensione trasgressiva del porno. Il problema è che questa presunta trasgressione fa parte di una lunga strategia di legittimazione dell’industria del porno nella sfera pubblica. Inoltre, è fondamentalmente regressiva in termini di modi di pensare la sessualità che hanno da tempo superato l’opposizione tra il «sessuale proibito» e la «freschezza del desiderio», per riprendere un ragionamento di Michel Foucault. Foucault ha mostrato come la «canzoncina anti-repressiva» possa diventare a sua volta un «formidabile strumento di controllo e di potere». La tesi di Foucault su questo punto è ben nota: il potere non è necessariamente una questione di costrizione, repressione e proibizione; è anche una questione di incitamento, valorizzazione e ingiunzione. È l’ingiunzione contemporanea a conoscere il proprio rapporto con il sesso; dove è in gioco un rapporto di verità con se stessi, designa un dispositivo di sessualità che trova nella figura di Rocco Siffredi un vettore non indifferente per affermare il proprio potere nel campo sociale.

Le apparizioni mediatiche di Siffredi, già citate, sono parte integrante di questo processo. Infatti, il discorso sul sesso che proviene da un “re del porno” molto richiesto forma un corpo di conoscenze che ci invita a interrogarci sul posto della sessualità nella nostra vita, a fare paragoni con le vite sessuali degli altri e a prendere le misure di pratiche legate al rough sex che permeano i corpi e le menti su larga scala. È questo il momento in cui la barriera tra vita e porno si rompe di nuovo, in cui il porno come dispositivo di sessualità entra nelle nostre vite. Fornendo a Siffredi un’ulteriore piattaforma visiva per stabilire questa conoscenza del sesso, Supersex fa parte di questo dispositivo di potere e contribuisce al consolidamento di una «scena pornografica» come istanza di dominio. Alla ricerca di dinamiche sessuali irriducibili a questo apparato, vorremmo concludere citando le ultime righe de La volontà di sapere di Foucault che hanno una singolare attualità: «L’ironia di questo apparato è che ci fa credere che sia in gioco la nostra “liberazione”». Liberazione, quale liberazione?

Riferimenti bibliografici
M. Foucault, Non au sexe roi, in “Le Nouvel Observateur”, n. 644, 1977.
Id., La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978.
J. Rancière, Chroniques des temps consensuels, Le Seuil, Paris 2005.

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