La folla (Vidor, 1928)

Non ha ucciso solo vite umane, Covid19. Ha ucciso (definitivamente?) anche uno dei soggetti protagonisti della modernità urbana: la folla. Quella che il protagonista di un celebre racconto di Edgar Allan Poe (L’uomo della folla) inseguiva ad ogni ora della notte nei quartieri più lontani della città per esorcizzare la sua paura di ritrovarsi solo. Quella che il flâneur – baudelairiano prima, benjaminiano poi – incontrava passeggiando per le strade della metropoli, esponendosi allo shock dell’incontro con l’inatteso. Ma anche quella che fluiva anonima ma composta in un dipinto come Boulevard Montmartre di Pissarro, o che riempiva film come Metropolis di Ftitz Lang, La folla di King Vidor o L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov.

Folla. Massa. Calca. Come quella che gremisce la 5th Avenue a Manhattan in centinaia e centinaia di film americani o i boulevard parigini e le strade londinesi in centinaia di film europei. Covid19 tutte queste folle le ha spazzate via. Le ha incrinate. Ne ha fatto il focolaio di ogni pericolo e minaccia. Far parte di una folla – affollarsi, unirsi, accalcarsi – diventa il gesto che mette in discussione la salute e la sopravvivenza del singolo. Per proteggersi bisogna isolarsi, staccarsi. Distanziarsi. La vicinanza fisica con l’altro diventa pericolosa. Solo la rarefazione, il distanziamento, il vuoto attorno a sé garantiscono – così almeno proclama la narrazione dominante – la salute del singolo.

Delitto perfetto. Missione compiuta. Covid 19 ha ucciso di fatto ogni spazio sociale e sta uccidendo l’idea stessa di socialità. Ci ha portato via non solo le strade gremite di folla, ma anche i cinema stracolmi di pubblico, i concerti affollati da fan, i comizi pieni di militanti, le chiese ricolme di fedeli, le discoteche pulsanti di corpi danzanti. Ha ucciso il diritto e il piacere di stare insieme. Ha fatto dell’altro un potenziale untore. Ha reso pericoloso il NOI. Ha sostituito definitivamente il sociale con i social. Nessun dittatore distopico avrebbe osato sognare un delitto tanto perfetto. Un così radicale redesign del sociale all’insegna dell’isolamento del singolo compensato da un uso compulsivo della relazionalità digitale consentita dal web.

L’esito estremo della società del narcisismo di massa è – paradossalmente – la monadizzazione del mondo: protetti da scafandri mentali immateriali, inibiti al contatto fisico con l’altro da guanti e mascherine, con l’attività tattile interdetta e sanzionata, facciamo della sopravvivenza del corpo il totem o il feticcio a cui immolare tutto: la nostra esistenza come persone che non si esauriscono nel corpo, il nostro bisogno di socialità.

Il rancore, che negli ultimi tempi – in Italia più che altrove, ma non solo in Italia – era diventato il sentimento dominante, ora scolora nella diffidenza: non c’è più un pharmakon o un nemico su cui scaricare la frustrazione divenuta odio. Ora sono tutti nemici: l’altro ci fa paura per il fatto stesso di esistere, di essere lì, di sfiorarci mentre passa sul marciapiede a una distanza che riteniamo troppo vicina a noi.

Durerà? Attecchirà questo modello neoisolazionista di corpo sociale? Difficile dirlo. Certo è che ora, a pandemia ancora in corso, il modello che appare diffondersi è semplice e inquietante al tempo stesso: tanti corpi “sani”, lontani uno dall’altro, in una società morta. Un po’ come accade – profeticamente? – al protagonista di La coscienza di Zeno nel finale del romanzo: lui guarisce, ma in un mondo che è malato alle radici.

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