Il sipario è alzato, le luci accese in sala. Il pubblico entra, brulichio di voci, si siede sulle poltrone rosse del Teatro di Roma. Lo scenario è ciò-che-accade-prima-dello-spettacolo, eppure la scena è già popolata: persone in scarpe e abiti sportivi corrono, eseguono ordinatamente esercizi di ginnastica, disegnano figure geometriche di gruppo, come gli storni in cielo. Si allenano. Per cosa? Per il teatro? Per la vita? Le luci poi lentamente si abbassano, ma lo spettacolo è già in medias res.

Questo l’inizio di Bestie di scena, l’ultimo lavoro di Emma Dante, che nel titolo racchiude l’animalità fisica del teatro, la sudditanza dell’attore al suo stesso lavoro di attore e forse anche un riferimento alla sua fragilità, al suo vivere alla mercé del drammaturgo ma anche grazie a lui, al turbinio fantasioso e potente della sua creazione. Così lo racconta la regista palermitana:

Bestie di scena ha assunto il suo vero significato nel momento in cui ho rinunciato al tema che avrei voluto trattare. Volevo raccontare il lavoro dell’attore, la sua fatica, la sua necessità, il suo abbandono totale fino alla perdita della vergogna e alla fine mi sono ritrovata di fronte a una piccola comunità di esseri primitivi, spaesati, fragili, un gruppo di imbecilli che come gesto estremo consegnano agli spettatori i loro vestiti sudati, rinunciando a tutto. Da questa rinuncia è cominciato tutto, si è creata una strana atmosfera che non ci ha più lasciati e lo spettacolo si è generato da solo.

E nonostante questo spettacolo sia così radicalmente lontano da un’altra bestia celebre del teatro italiano, quella Bestia da stile pasoliniana autobiograficamente incarnata in Jan, nonostante possa sembrare inadatto il richiamo  ̶  e in gran parte lo è  ̶ , nel rapporto con la parola emerge in entrambi quella regressione linguistica che in Pasolini è arcaicità dialettale, mentre qui assume la forma del silenzio, si trasforma in assenza di testo e in pura corporeità, nella presenza di rari suoni, versi emessi, che durante il corso dello spettacolo non virano mai in parole: il linguaggio è il corpo stesso dell’attore. Anzi, l’insieme degli attori crea un ulteriore corpo unico: nella scelta della coralità magistrale e ininterrotta sulla scena del gruppo, Emma Dante sembra offrire alle sue creature la possibilità di plasmare un unico corpo fatto di altri corpi, che è il corpo stesso del teatro.

Sul palcoscenico gli attori iniziano a spogliarsi e sono nudi in scena per quasi tutti i 75 minuti che occupa lo spettacolo: via le scarpe, via i pantaloncini, via le magliette. La visione è quella di esseri che tornano a se stessi: emerge il corpo per ciò che è, strumento ma anche oggetto del lavoro di attore. Emergono lo spaesamento e l’ironia che proteggono la nudità integrale dei quattrodici attori sul palco, attori con le mani nude a coprire seni e genitali, come a voler preservare un brandello d’intimità, come a non sentirsi completamente svelati. Il disvelamento sembra essere il concetto primordiale attorno cui ruota la nuda essenzialità dei corpi e questo porta con sé tutta la fragilità dell’essere in balia di oggetti che di volta in volta appaiono, fatti calare dal buio delle quinte o lanciati sul palcoscenico da mani invisibili. E allora ecco una tanica d’acqua, che passa di mano in mano lungo la catena degli attori nudi: mentre l’uno beve, l’altro gli copre le parti intime, un gesto protettivo e ironico al contempo, fin quando tutti hanno attinto e sono pronti infine a spruzzare l’acqua per aria all’unisono, particelle acquee pulviscolari che illuminano la scena nella luce, che costruiscono forme e figure nell’uso estremamente libero, radicale e immaginifico che la Dante ha sempre nei confronti della scena e del lavoro attoriale.

Gli attori nudi sono cetacei immaginari in fila sul palcoscenico, animali da bestiario medioevale, spruzzano acqua e poi tornano ad essere uomini. La metamorfosi degli attori in Bestie di scena è una delle cifre continue di questo lavoro, quando non di tutto il teatro della regista palermitana. La metamorfosi del corpo come gioco, come possibilità, come creazione ininterrotta. La nudità, in questo senso, ha un ruolo chiave nello spettacolo: è una nudità necessaria, non orpello. Più che di nudo si tratta di corpo. La scelta della nudità era al centro anche di un altro spettacolo che alcuni anni fa ha iniziato a riempire prepotentemente i teatri di mezza Europa, il monologo tragico La Merda di Cristian Ceresoli, con l’interpretazione di Silvia Gallerano. E lì sì che il richiamo a Pasolini era consapevole e cercato, una ripresa rinnovata ed esibita del discorso antropologico pasoliniano, e anche lì la nudità dell’attrice era necessaria, gridata, voluta. Era nuda personificazione del discorso.

Nel corso di Bestie di scena vi sono plurime auto-citazioni da altri spettacoli della regista, alcune facilmente riconoscibili: si notano le figure circolari di Odissea A/R, stralci da La Scimia, rimandi e suggestioni dalla Trilogia degli occhiali, per citarne soltanto alcune. Quasi che Emma Dante ne abbia consapevolmente fatto uno dei diversi fil rouge del suo spettacolo, quasi a voler costruire un discorso sulla sua concezione del teatro a partire dal corpo stesso dell’attore: perché se questo spettacolo “si è generato da solo”, come dice la regista, allora affonda nel suo immaginario teatrale più profondo, è un personale corpo a corpo con il teatro (e con il proprio teatro). Senza dimenticare mai la dimensione giocosa, sperimentale, fantasiosa. Allora tutti gli oggetti che “aggrediscono” gli attori sul palco, e nell’affrontarli gli impongono una sfida, una metamorfosi e innescano dinamiche di lotta o di resa, di scontro, divengono simboli: l’acqua nella tanica, le funi calate dall’alto con le scope sospese, i coriandoli, le bambole. Sono oggetti con cui l’attore si confronta, si mischia, ne viene a volte contaminato, come l’attrice che in una scena si trasforma in un burattino meccanico e non riesce ad essere “risvegliata”, o quella che inizia a piroettare senza sosta “a comando”, finché non è lasciata libera dall’incantesimo.

Il magistrale lavoro corporeo di tutti gli attori e l’uso così libero, sperimentale ma essenziale della scena, rendono questo spettacolo uno splendore di libertà espressiva e, al contempo, una riflessione profonda dell’esperienza teatrale. Per gli attori e per gli spettatori.

Riferimenti bibliografici
A. Barsotti, La lingua teatrale di Emma Dante, ETS,Pisa  2009.

T. De Simone, Intervista a Emma Dante, Navarra, Palermo 2011.
A. Porcheddu, Palermo dentro, Zona, Lavagna (GE) 2006.

*L’immagine presente nell’articolo e in anteprima è una foto di scena di Masiar Pasquali.

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