Denaro e quadri di Parigi
Nel 1923, nella bufera dell’inflazione tedesca, Walter Benjamin compì un viaggio nella Germania di Weimar di cui anni dopo, in Strada a senso unico, uscirà uno strepitoso “reportage narrativo”. Ironia della sorte, proprio in quell’anno in cui il valore del denaro si sciolse nell’aria e Benjamin guardò in faccia per la prima volta la propria povertà di declassato, per l’editore Weißbach compariva un libro elegante, stampato in un carattere per bibliofili – il Dragulin 1910 –, scelto appositamente da Benjamin: la sua traduzione completa dei Tableaux Parisiens di Baudelaire.
Erano anni che Benjamin, allora trentenne, sulla scia delle celebri versioni delle Fleurs du mal di Stefan George, lavorava sui versi di Baudelaire, e finalmente il suo progetto trovava casa. A quel libro Benjamin premise un saggio famoso: Il compito del traduttore. Né nota traduttologica, né avvertenza alle scelte lessicali, il testo era invece una riflessione filosofica sull’atto del tradurre: ma impervia, ostica, straordinariamente resistente alle volgarizzazioni. Nel corso di una dozzina di paragrafi, Benjamin si sceglieva pochi compagni di viaggio: Mallarmé, Rudolf Pannwitz e Goethe come teorici, e poi Lutero, Voß, Hölderlin e George come “pratici” (che «hanno ampliato i confini del tedesco», Benjamin 2023, p. 99). Per sostenere una tesi ardua e radicale: le traduzioni non servono, le traduzioni intendono una lingua comune e nascosta, messianica e pura.
A cent’anni di distanza dalla prima pubblicazione, a sessanta dall’unica traduzione italiana di Renato Solmi, Maria Teresa Costa, forte della recente edizione critica tedesca delle versioni baudelairiane, lo cura e ritraduce (molto bene) per Mimesis, con testo a fronte e dovizia di informazioni a supporto – storiche e filologiche –, inquadrandolo nella cornice teorica di Benjamin (l’unica utile alla sua comprensione), e valorizzandone l’eccentricità anti-normativa nel quadro dei Translation Studies. Inoltre, qui Il compito del traduttore è impreziosito da due illuminanti frammenti degli anni trenta sul tema: una serie di appunti vergati nell’anno maledetto 1933, e uno schema di dialogo con Günther Stern, poi Anders, in cui si arriva a parlare di traduzioni riuscite, traduzioni felici, che rendono conto di sé nel commento. Che è quanto fa Costa nella sua postfazione, tentando felicemente un “commento interlineare” al saggio di Benjamin, spiegando capoverso per capoverso le svolte e intenzioni di un testo quanto mai denso, rendendolo accessibile.
A monte dei cocci
Cos’è allora la traduzione? La traduzione è innanzitutto una forma, afferma Benjamin (ivi, p. 45). Una forma propria, autonoma (ivi, p. 77), e per questo il compito del traduttore è un compito a sé, distinto da quello del poeta. Ed è un modo, la traduzione, di confrontarsi con l’estraneità reciproca delle lingue. Nel gestire quest’estraneità la traduzione fa crescere dentro di sé l’originale. Certo ogni traduzione è situata, collocata. Eppure fa riferimento – i verbi di Benjamin, sottolinea Costa (ivi, p. 144), sono deuten, andeuten, hindeuten, bedeuten (indicare, accennare, alludere, significare) – a una lingua superiore a sé, che tuttavia non è quella originale. Tutto è romanticamente ironico: le traduzioni valorizzano aspetti determinati del contenuto linguistico, mai la sua totalità, eppure vi fanno cenno, la indicano: come spiega Costa, «L’ironia è data dal fatto che ciò che è mortale (la traduzione) è in qualche modo più definitivo di ciò che è immortale (l’originale)» (ivi, p. 154).
Il compito del traduttore è dunque trovare nella lingua di arrivo «l’intenzione in grado di risvegliare in essa l’eco dell’originale» (ivi, p. 79). Per questo il traduttore esplora un gergo, una variante interna, per quanto limitata, di quella “vera lingua” – questa la formula fin troppo ieratica di Benjamin, che l’alterna con quella più kantiana di “pura lingua”. La pura lingua costituisce il fondo materiale, concretissimo, di ogni specificazione storica – quella che Mallarmé, chiamato in causa in originale da Benjamin come “indizio”, suggerisce Costa (ivi, p. 159), chiamava “idioma” (ivi, p. 83).
Allora ogni traduzione è configurazione di un idioma in nome di una lingua che trascenda i suoi limiti corporei e semiotici: è un coccio di un vaso di cui l’originale è un altro coccio. Per questo diventa fuori luogo ogni dibattito sulla fedeltà, dato che la traduzione non mira a riprodurre il senso, ma a integrarlo: «In Brot e pain l’inteso è certamente lo stesso, ma non il modo di intendere» (ivi, p. 67). È fuori luogo ogni questione di letteralità, che è l’arcata entro cui passare, certo, ma non dice quel tentativo di ogni lingua – e quindi della coppia originale-tradotto, fratta e ricomposta – di accennare a un luogo linguistico di indicibilità, di incomunicabilità, di non-significato, che paradossalmente permette a chi traduce la libertà di “ripoetare” (Umdichten), di integrare l’originale nella sua eco estranea. Ed è parlando di questo luogo interno a ogni lingua che Benjamin pronuncia il nome di Dio.
I suoni delle migrazioni
Tra originale e traduzione, afferma Benjamin, vi è una relazione inutile (la traduzione non significa nulla per l’originale), che diventa però necessaria se guardata da un punto di vista non umano. Per esempio, un attimo può essere «indimenticabile, anche se tutti gli uomini [lo] avessero dimenticato» (ivi, p. 47). È indimenticabile perché rimanda a una sfera precisa, dove a «ricordare» è «Dio» (ibidem).
Questo è decisivo per il rapporto tra originale e traduzione: l’originale c’è a prescindere dalle operazioni culturali fatte per, nell’ordine, renderlo, restituirlo, attualizzarlo. Eppure l’originale – che sia opera o immagine – è sempre eccedente, warburgianamente migra (lo sottolinea bene Costa, ivi, p. 137n e p. 140). Per questa sua eccedenza costitutiva è ricordabile a priori, non da un soggetto che sia autrice o traduttore, ma da qualcuno che Benjamin chiama Dio e che invece è storia. Per questo attende in ogni istante una voce che lo evochi proprio oggi. Una voce che virtualmente è in ogni traduzione.
Il filo conduttore del saggio è allora proprio il concetto di “traducibilità”. Che un testo sia traducibile non vuol dire che la sua traduzione sia essenziale, ma che un «determinato significato intrinseco agli originali» si manifesta proprio nella traducibilità. Tutto sta nel capire di quale significato si tratti. Come visto, Benjamin arriva a sostenere che la traducibilità è un rapporto, un nesso naturale e insignificante per l’originale, in quanto essere vivente. La traduzione, semplicemente, indica uno stadio di sopravvivenza dell’originale, di prosecuzione metamorfica – il Fortleben, l’andare avanti con la vita. La traducibilità indica appunto la sfera del “durare cambiando”: nella sopravvivenza «L’originale si trasforma» (ivi, p. 61). Ed è per questo che Benjamin giunge a iscrivere l’intero spettro del concetto di vita in quello più preciso di “storia”: «È solo riconoscendo vita a tutto ciò di cui vi è storia, e che non costituisce solo lo scenario del suo accadere, che si rende pienamente giustizia al concetto di vita» (ivi, p. 47).
La traduzione è una forma di vita supplementare, un’integrazione e uno sviluppo della storia dell’originale, che per sé richiedeva questa eco. Benjamin parla a più riprese di risonanza, di una sostanza acustica che si sostiene proprio nella possibilità di ogni opera di essere tradotta. Nella “domanda” di trovare corrispondenze in altre lingue – le correspondances di Baudelaire cui rimanda Costa (ivi, pp. 148-149) – c’è una domanda di trasformazione.
Vite senza fine
Per Benjamin, dunque, non esistono traduzioni “di servizio”. Le traduzioni non sono destinate a un ricettore. Non sono “intenzionate”. Meglio, le traduzioni non hanno fine. Un passaggio centrale del saggio recita che ogni forma che tende a un fine non lo cerca nella vita, ma nell’«espressione della sua essenza, [nell’]esposizione del significato» (ivi, p. 55). La traduzione non è quindi dell’ordine del vitale, ma tende a esprimere – esporre, dice Benjamin – il rapporto intimo tra le lingue, l’affinità in ciò che vogliono dire. Ma nulla è pacificato, in quest’affinità. Anzi, tutto è potenzialmente conflittuale, se non mostruoso. Come le versioni hölderliniane di Sofocle. D’altronde, chi traduce corre un rischio: «Che le porte di una lingua così ampliata e dominata si chiudano e riducano il traduttore al silenzio» (ivi, p. 107), come accadde per Hölderlin. Lo stesso Hölderlin che prima di tacere commentò se stesso traduttore, aprendo a un’alleanza in cui letteralità e libertà vanno a unirsi «senza tensioni nella forma della versione interlineare» (ivi, p. 109). Così, con l’evocazione del compito del commento accanto alla resa, si chiude il saggio. La versione interlineare si rivela archetipo di ogni traduzione: il commento è il dispiegarsi della traduzione, mostra il perché della fiducia traduttiva nel far cenno a una lingua pura, e al contempo indica lo spaesamento tra le lingue. Nel commento, nello spazio di parola tra poesia e filosofia, la traduzione continua a facilitare migrazioni.
Walter Benjamin, Il compito del traduttore, a cura di Maria Teresa Costa, Mimesis, Milano-Udine 2023.