di ALESSANDRO CAPPABIANCA
Ricordando Massimo Troisi, a venticinque anni dalla sua scomparsa.

Non ci resta che piangere (Benigni, Troisi, 1984).
Parliamo qui del cinema di Massimo Troisi, scomparso venticinque anni fa, a soli quarantuno anni. Parliamo del suo cinema ma, parlandone, non possiamo fare a meno di constatare come esso (assieme alle esperienze televisive) si basasse soprattutto sul teatro, quindi sul gesto e su una particolare vocalità cabarettistica: gesto e vocalità legate a un orizzonte teatrale preciso (Napoli, Pulcinella, Eduardo) e al contempo da esso infinitamente differente. Nel teatro, nel cinema, nella televisione, di Troisi, la lingua non è mai veicolo di comunicazione, ma pietra d’inciampo, su cui la comunicazione stessa non fa che scivolare.
Il gag non si esaurisce quasi mai in una battuta, ma nell’agguato dell’afasia nei confronti del logos. Costellando i film, del resto, i gag formano l’ossatura del genere comico, ma contemporaneamente vi iscrivono una virtuale contro-struttura puntiforme. In ogni caso, c’è un immancabile effetto di estraniazione, di surrealismo, di anti-naturalismo, diciamo un immancabile effetto di scrittura (scrittura di gesti) che la catena dei gag tende ad esercitare sulla struttura narrativa: effetto che non viene minimamente inficiato, anzi, se possibile, è potenziato, da una certa qual “prevedibilità” del gag, intendendo per gag “prevedibile” non quello banale o mal riuscito, ma quello iscritto nella struttura in modo tale da risultare “inevitabile” in un certo momento e date certe premesse, in rapporto al sistema di riferimento contestuale di un certo comico.
Ciò costituisce proprio quel piacere preliminare, che tanta parte gioca nella riuscita dell’effetto: è del ricordo di aver riso e dell’aspettativa di ridere, che lo spettatore ride, riteneva Freud, pensando a quando il pubblico vede l’attore comico arrivare alla ribalta (o sullo schermo). Il pubblico ride, prima ancora che il comico abbia fatto un qualsiasi tentativo per farlo ridere. Nell’attesa, mentre il comico è lì, semplicemente presente, magari serio, fermo, impassibile, lo spettatore già prefigura e pregusta il prossimo scatenamento.
Troisi “non parlava” napoletano, e neppure qualche dialetto più arcaico: piuttosto esercitava la difficoltà di parlare, quella di far coincidere il sentimento con la sua espressione, o meglio, la difficoltà di assicurare alle parole un senso univoco, senza istantaneamente annullarne la suggestione (musicale). Gagman dell’afasia, portatore d’un gesto vocale esitante, che non riesce mai a prevalere definitivamente su un gesto corporeo altrettanto esitante, Troisi era uno dei pochi attori comici a portare in scena, sullo schermo cinematografico o su quello televisivo, il corpo e la voce dell’attore “agonizzante”, dell’attore che sa di morire, mentre recita.
Il comico e la morte. Prendiamo la morte di Molière, sulla quale Badiou si è soffermato a lungo. Molière muore mentre sta interpretando sulla scena, come attore, il Malato immaginario, divenendo pertanto, da malato immaginario, morto reale. Che significa questo incredibile corto circuito tra finzione e realtà? La realtà, o meglio, il Reale (la sfumatura lacaniana non è casuale), si manifesta proprio attraverso la finzione, la squarcia, la rende impossibile – è innegabile che qui si crei l’evento, ma a prezzo della fine della rappresentazione. L’evento consiste nel gesto dell’attore di strapparsi la maschera, gesto istintivo del moribondo, non privo peraltro di un sia pur minimo coefficiente di teatralità.

Ricomincio da tre (Troisi, 1981).
Supponiamo ora che Molière non fosse morto in scena. Supponiamo magari di vederlo recitare in una replica del Malato immaginario precedente a quella fatale: non si avrebbe la stessa sensazione dell’irrompere del Reale, non si coglierebbero già sul suo viso, nei suoi gesti affaticati, nelle guance scavate, i segni della malattia e della morte imminente? Non avvertiremmo già, dietro il Comico, il senso del Tragico che incombe? Non è per questo che un gesto, anche nel cinema, diventa “vero”?
Si profila dunque una conclusione alquanto paradossale: gesto “vero” sarebbe quello il più possibile sottratto alla logica dell’azione (del racconto), il meno verosimile in senso aristotelico. Come ha scritto Agamben in Mezzi senza fine: «Nel cinema, una società che ha perduto i suoi gesti cerca di riappropriarsi di ciò che ha perduto e, insieme, ne registra la perdita» (Agamben 1996, p. 48). La perdita si situa nel cuore stesso del racconto, la riappropriazione è possibile solo al di là di esso. In quanto cristallo di memoria storica, il gesto è un potente attivatore di ricordi, che spesso ci colpisce a tradimento, magari nel bel mezzo di una situazione “comica”. A volte, addirittura, può nascere da un errore, un lapsus, uno sbaglio. Un gesto involontariamente goffo può risultare più vero del gesto più attentamente calcolato. È questo che ha autorizzato nel cinema, per esempio, il felice utilizzo degli attori “presi dalla strada” da parte del neorealismo. È qui che si situa lo specifico genio comico di Troisi.
Sono i gesti goffi, esitanti, perennemente sull’orlo del fallimento, del Gaetano di Ricomincio da tre (1981), del Vincenzo di Scusate il ritardo (1983), del bidello Mario in Non ci resta che piangere (1984), del Camillo di Le vie del Signore sono finite (1987), del Tommaso di Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991), oltre che delle prestazioni attoriali per Ettore Scola. Gesti comici sui quali non possiamo fare a meno di proiettare il paradigma d’un destino di morte.
Questo destino si evidenzia, si legge sul volto dell’attore soprattutto ne Il postino (1994), tratto dal romanzo Il postino di Neruda di Antonio Skarmeta, diretto da Michael Radford. Credo che il miglior film di Troisi sia proprio questo, solo in parte e insieme fondamentalmente suo, dove il personaggio di Mario Ruoppolo, il postino-poeta, assume tutto il suo pathos dai segnali di morte che si indovinano sul viso dell’attore. Film sulla poesia, su Neruda, sull’amicizia d’un grande poeta e di un’anima semplice? No, non solo: direi film girato, magari involontariamente, sul lavoro della morte e sulla morte al lavoro.

Il postino (Troisi, Radford, 1994).
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996.