Campo e controcampo, la più antica ed elementare forma di montaggio che il cinema abbia inventato per vivacizzare il dialogo ravvicinato o la conversazione a distanza tra due interlocutori. A distanza, naturalmente, significa anche per telefono, e da questo punto di vista si è verificato di frequente il collegamento col thriller o col noir. Chi c’è all’altro capo del filo? A chi appartiene la voce che ci interpella? Voci senza corpo, voci di estranei, provenienti da luoghi sconosciuti, risuonano nelle orecchie, proponendo l’ipotesi della distanza assieme a quella di un’eventuale, inquietante prossimità. Il telefono non tanto annulla la distanza, quanto la rende indecidibile: le voci si materializzano, come provenienti dal nulla. Esistono dunque pure voci, voci senza corpo? È proprio questo che il cinema, nato ab origine dalla messa in scena di corpi senza voce, o dotati di voce vicaria, non ha mai potuto accettare, almeno fino a questo Il colpevole – The Guilty (2018), primo lungometraggio d’un regista trentenne, Gustav Möller, danese (ma nato in Svezia).

Nei film “telefonici”, più o meno recenti, polizieschi o no, si ricorre quasi sempre al controcampo, alla necessità di mostrare, prima o poi, cosa c’è all’altro capo del filo, oltre alla voce: controcampo a distanza, una sorta di montaggio alternato, spesso basato sulla progressiva scoperta del volto dell’interlocutore misterioso. Possiamo ricordare Il terrore corre sul filo (1948) di Anatole Litvak, non a caso derivato da un radiodramma, Quando chiama uno sconosciuto (Walton, 1979), In linea con l’assassino (Schumacher, 2002), fino a Locke (Knight) e The Call (Anderson), entrambi del 2013.

In particolare Locke, nel film omonimo, fa e riceve una quantità di telefonate nell’arco d’una notte, e dei suoi interlocutori sentiamo solo le voci, come nel film di Möller, ma si tratta di chiamate da persone conosciute e Locke le riceve mentre corre in macchina verso una meta che ci sarà rivelata solo alla fine, e questo permette al regista di inserire tra i costanti primi piani del protagonista alcune suggestive inquadrature esterne dell’auto e del traffico notturno sulle autostrade. The Call, invece, parte dall’interno d’un centralino di polizia per chiamate di emergenza, come Il colpevole, ma ciò che la protagonista è costretta a sentire viene subito visualizzato, e lei, successivamente, coinvolta nell’azione, secondo le modalità classiche del thriller.

L’originalità de Il colpevole sta nel fatto che noi vediamo l’interno (due stanzette) d’un centro per chiamate d’emergenza (il 112) a Copenaghen, e vediamo solo il poliziotto Asger Holm, interpretato da Jakob Cedergren (giustamente, all’ultimo Torino Film Festival il film ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura e per la migliore interpretazione maschile). Attorno a lui, sagome sfocate di colleghi, ombre vaghe, appena percepibili. Asger è sotto inchiesta per gravi infrazioni disciplinari (forse ha sparato a qualcuno con troppa fretta), è stato messo al call center in attesa d’essere giudicato dalla Commissione Disciplinare, e il processo avverrà proprio il giorno seguente. Un collega, un amico, dovrebbe testimoniare in suo favore, ossia, per dirla tutta, dovrebbe mentire per lui.  A questo punto, riceve la telefonata d’una donna che dice di chiamarsi Ibsen e che finge di parlare con sua figlia Mathilde per non farsi scoprire da quello che Asger capisce essere il suo rapitore, cioè suo marito. Con una serie di telefonate sempre più drammatiche, Asger riesce a stabilire che la donna è racchiusa in un furgone bianco, che il marito, un certo Michael, la sta trascinando chissà dove, che la figlia Mathilde, una bambina, è rimasta sola in casa col fratellino Oliver ed è spaventata.

Di tutto questo, però, nulla ci viene mostrato: la macchina da presa non esce mai dalle due stanze del call center, non si stacca mai dal primo piano del poliziotto in ascolto. Tutto avviene attraverso il gioco delle voci, l’alternarsi di chiamate, silenzi, attese e false piste. Nulla è visibile, se non il riflesso delle voci sul primo piano d’un ascoltatore sempre più coinvolto: finché la situazione, rovesciandosi, non richiederà addirittura un esame di coscienza personale. Emerge poco a poco una verità diversa: alla piccola Mathilde, il padre ha ordinato di non entrare nella stanza del fratello. Asger la spinge a entrarvi, e la bambina si troverà di fronte a uno spettacolo orrendo.

Oliver è stato ucciso, letteralmente squartato, da qualcuno: ma da chi? La madre telefona di nuovo, dice che non vuole essere rinchiusa. Nel presupposto che il marito l’abbia rinchiusa nel fugone, Asger la esorta a munirsi di un’arma (uno dei mattoni del marito, che fa il muratore) e cerca di calmarla, parlando. Parlano delle cose belle, delle cose che amano. La donna confessa di andare volentieri all’acquario di Copenaghen. È un ambiente rilassante, dove regna un profondo silenzio blu, e anche gli squali, scivolando silenziosi, non fanno paura. Più tardi, da un ponte sull’autostrada, Ibsen confesserà d’essere stata lei a uccidere suo figlio, senza rendersene conto, e minaccerà di saltare giù. Per dissuaderla, ad Asger non resterà che confessare a sua volta di aver ucciso.

Solo voci dunque, voci nella notte, disperate richieste d’aiuto da parte di sconosciuti di cui si conosce solo il nome, se ritengono di dirlo. Una donna rapita? Un marito violento? Una figlia spaventata? Così sembra, ma è il contrario di tutto questo. Nessuna visualizzazione. Asger, i primi piani del suo volto, sono i soli a essere mostrati, e su quei primi piani le voci penetrano a fondo, mostrano il lavoro che sono in grado di compiere sull’interiorità del personaggio. Il furgone bianco stava viaggiando verso il Centro Psichiatrico di Elsinore, ma chi avrebbe dovuto esservi ricoverato? Dalla notte delle voci, la mattina, dal corridoio del centralino, esce forse un uomo che ha finalmente fatto i conti con se stesso.

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