La protagonista de La notte (Antonioni, 1961) Lidia, la moglie non amata che vaga per Milano osservando i frammenti scoordinati della propria vita, è in grado, probabilmente, di rendere al meglio la figura del flâneur nel pieno del XX secolo.

Una delle scene centrali del film immortala Lidia che cammina senza scopo per la città, opponendo la sua forma alla rigidità architettonica del paesaggio, e condensando nel proprio corpo le lotte psicologiche della vita metropolitana del boom economico. La fredda e distaccata protagonista lascia la presentazione del libro del marito e intraprende una solenne passeggiata attraverso il paesaggio urbano di Milano, fino a un campo abbandonato, luogo del loro primo appuntamento. Nel suo errare le ombre scure dei grattacieli si proiettano sulla sua pallida figura, creando un drammatico effetto di chiaroscuri. Ancora, più tardi a una festa, Lidia vaga senza meta per le grandi sale e il giardino e interagisce con i ricchi partecipanti, fungendo così da filtro per il pubblico attraverso il quale tutto e tutti sono visti. In questo vagare, gli ambienti altamente impersonali diventano esattamente l’opposto: spazi privati per le sue stesse osservazioni.

Il flâneur è stato notoriamente celebrato da Charles Baudelaire nel diciannovesimo secolo come il pedone le cui peregrinazioni consentivano nuove comprensioni della metropoli in evoluzione, e successivamente ripreso da Walter Benjamin per tematizzare le percezioni sensibili sulla vita metropolitana e sulla modernità culturale. È proprio a partire dalle considerazioni di Benjamin sulla Parigi del Secondo Impero che si articolano le vicende del libro di Elena Palazzi, Il cinema, un collezionista e la borghesia (Fondazione Mario Luzi, 2021), attraverso un’operazione che tenta di testare i lemmi benjaminiani fino ai giorni nostri, a confronto col nuovo spirito del capitalismo.

Come è noto cuore teorico del lavoro di Benjamin è la Parigi del XIX secolo, all’interno della quale si muove il flâneur, tranquillo vagabondo che, ignaro del tempo ma esteticamente legato allo spazio, è diventato un simbolo della cultura urbana e della soggettività moderna. Se l’aria di noncuranza conferisce a questa figura la libertà di osservare inosservato, di immergersi nella folla o di abitare, ad esempio, l’intimità domestica dei portici della città, la sua intrinseca ambiguità gli consente di formare un habitat privato ovunque senza conformarsi a nessuna istituzione e senza appartenere ad alcun ceto sociale. Per comprendere questa trasformazione profonda il testo di Palazzi fa emergere come protagonisti sulla scena moderna la borghesia, il cinema e il collezionista, ad un tempo fenomeni sociali e personaggi sulla soglia tra reazione e progresso. Un rapporto che nella concezione di Benjamin della storia, non si presenta più in una relazione dicotomica, ma strettamente correlata ed ambigua.

All’interno di questo margine, ad esempio, si muove il collezionista dell’epoca moderna, esemplarmente incarnato, secondo Benjamin, da Edward Fuchs. Il collezionista, infatti, si muove sulla stessa linea di tensione del borghese, o del poeta-flaneǔrbohèmien Baudelaire. Fuchs è interessato principalmente alla caricatura, pratica sintomatica dell’epoca moderna che deve fare i conti con l’avanzamento delle masse e dunque darsi come arte infinitamente riproducibile ed accessibile. Il collezionista/storico coglie in questa tecnica proprio il suo carattere di ampia accessibilità, e tuttavia la ricompone al suo esclusivo patrimonio dandogli ancora una sacralità auratica e dunque consegnandola nuovamente ai valori borghesi.

Il momento della ricezione dell’arte per Benjamin rappresenta la possibilità di intercettare gli elementi sensibili di tale fruizione e di delinearne la storia. Una storia delle arti direttamente connessa ad una storia della percezione, ossia a tutte le differenti modalità in cui si configura il rapporto estetico-sensibile tra l’umanità e il proprio mondo di riferimento. L’indagine benjaminiana si configura allora come un’indagine sulle condizioni di possibilità dell’esperienza umana nella modernità e investe l’arte nella misura in cui una parte di essa deve essere considerata alla luce delle forze che attraversano il moderno. Tale rapporto permette al filosofo tedesco di elaborare tesi che intendono mettere in crisi alcuni elementi tradizionali dell’estetica occidentale e al contempo contrapporgli concetti utili all’esigenza rivoluzionaria della politica artistica.

Come sottolinea Palazzi centrale è il concetto di “riproduzione”: la capacità di rendersi accessibile grazie alla tecnica e alla replicabilità ad essa correlata. Tale riproduzione ha la principale caratteristica di modificare lo statuto tradizionale dell’arte, l’aura, la sua autenticità, e di spazzare via la “sindrome della teca” entro cui si intendeva conservare gli oggetti e il loro valore. Certo la riproducibilità non è un tratto esclusivo dell’epoca moderna ma è fortemente connessa alla storia dell’arte tutta. Basti pensare al susseguirsi storico delle diverse tecniche di riproduzione che vanno dalla xilografia, alla punta secca, alla stampa fino alla litografia e, nell’epoca moderna, alla fotografia.

Ciò che per Benjamin viene messo in gioco dalla tecnica fotografica, però, è un tipo di riproduzione in grado di far emergere elementi che, a dispetto dell’occhio umano, solo la capacità meccanica dell’obiettivo è in grado di cogliere. L’occhio meccanico, cioè, non è solo in grado di ampliare o rendere maggiormente evidenti elementi comunque visibili, ma rappresenta la possibilità di cogliere inedite strutture del reale. Dalla fotografia il discorso di Benjamin si allarga agevolmente al cinema, in grado di dilatare il tempo e lo spazio e di rendere così percettibili gesti e movimenti della vita quotidiana normalmente esclusi dalla percezione. La moltiplicazione tecnica degli originali dentro la grande città novecentesca consente di investire i fruitori in qualunque luogo essi si trovino: il cinema è in questo senso l’agente più potente della trasformazione in atto nella modernità.

Se già la fotografia, permettendo una infinita serie di stampe della pellicola, rendeva irrilevante la questione dell’autenticità, il cinema chiude definitivamente la partita ergendosi ad arte intrinsecamente connessa alla stessa tecnica riproduttiva. Seppure in termini estetici il cinema rappresenta una novità connessa costitutivamente e geneticamente alla modernità, al contempo ha saputo rispondere all’esigenza di familiarità del pubblico proponendo, almeno sul piano narrativo, una certa somiglianza con la logica della realtà. Una prospettiva nuova, ma il cui materiale di riferimento è in ultima istanza la realtà stessa, le vite stesse di chi, poi, assisterà allo spettacolo in sala.

Il potere delle immagini, la possibilità di riprodurre tecnicamente le opere d’arte modificano in maniera sostanziale la percezione che gli individui hanno di sé e degli oggetti: tutto è messo letteralmente in mostra e reso visibile, non vi è più alcuna sacralità da preservare. Il set cinematografico sembra allora il modello più adeguato per comprendere la nuova trama della vita umana: dall’abbigliamento agli stili di comportamento, alle posture, tutto sembra fare riferimento al copione di un film, ad uno spettacolo perpetuo. Come la figura del poeta incarna in maniera esemplare la possibilità di essere cangiante – cenciaiolo, apache, flâneur – nella modernità ogni individuo serba nelle proprie potenzialità differenti personaggi, e una ragazza può indossare abiti eleganti la sera, da sartina il pomeriggio o da contadina al mattino.

La città dell’epoca moderna è un luogo in cui il soggetto rappresentato si confonde del tutto con la sua rappresentazione, in cui non appare chiaro se sia la realtà a produrre le immagini riprese dal cinematografo o, viceversa, non sia dentro le sale di proiezione che il soggetto, guardando se stesso, si riconfiguri. È possibile, a questo punto, attraverso la pratica benjaminiana, fare il punto sulla contemporaneità e dunque constatare quanto i solchi tracciati dalla modernità si siano fatti profondi.

Nella società eternamente connessa le immagini entrano ancora più prepotentemente dentro le vite di ognuno, ed in particolare attraverso quella che Lev Manovich ha definito “interfaccia-immagine”: una nuova funzione legata ad un pannello di controllo con cui interagire, che dilata la loro natura e la fruizione ben oltre se stesse. Così come, seguendo la critica alle nuove forme del Capitale di Boltanski e Chiapello ne Il nuovo spirito del Capitalismo (Mimesis, 2014) è possibile accertare quanto la flessibilità, la capacità di essere mobili e in grado di sganciarsi prontamente da qualsiasi legame sia ormai legge comune. La capacità di adattarsi e di sapersi vendere al mercato è ormai una questione di sopravvivenza che radicalizzando lo shock che caratterizza la Parigi di Baudelaire, fa della metropoli contemporanea una vera e propria città prêt-à-porter.

Vale la pena allora riprendere il Didi-Huberman quando concepisce la costruzione delle immagini come creazione di significato rispetto al mondo e alla storia, e scommette sul loro potere disvelatore per affrontare questioni che investono sfere complesse dell’esistenza umana. A entrare in gioco è allora la nozione profonda dell’impegno morale della rappresentazione visiva con la realtà, il cui fondamento è la comprensione del potere dell’immagine come modalità problematica di rappresentare l’irrappresentabile, e di dare senso a quel riferimento. Questo sarebbe il valore ermeneutico della creazione, anche di quella cinematografica, e più in generale il valore dell’immagine come modalità di affrontare la realtà e trasformarla.

Riferimenti bibliografici
L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del Capitalismo, Mimesis, Sesto Sa Giovanni 2014.
G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005.

Elena Palazzi, Il cinema, un collezionista e la borghesia. Sulla soglia tra reazione e progresso, Fondazione Mario Luzi, Roma 2022.

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