C’è un 11 settembre precedente a quello del 2001, il cui impatto politico e simbolico non fu meno forte per una generazione che aveva visto nel governo di Salvador Allende un modello possibile di socialismo alternativo a quello del blocco sovietico. L’11 settembre 1973 ha inizio in Cile il colpo di stato che porterà al rovesciamento del governo di Unidad Popular di Allende e all’instaurazione della lunga dittatura militare di Pinochet.

Quel giorno sancì anche la fine di un movimento cinematografico originale e importante, che si basava su un sistema produttivo cooperativo e condiviso, che sperimentava forme e racconti che avevano come fine quello di creare un nuovo sguardo. Miguel Littín, Raúl Ruiz e Patricio Guzmán sono alcuni dei registi che hanno attraversato quella fase e che dopo il golpe hanno dovuto lasciare il Paese per esiliarsi in Europa, continuando in modo diverso il loro percorso, mentre altri, come Ignacio Agüero, rimarranno in Cile, tra mille difficoltà produttive e realizzative.

A cinquanta anni di distanza, in alcune sale italiane vengono proiettati cinque film di Guzmán, Salvador Allende (2004), Nostalgia della Luce (2010), La memoria dell’acqua (2015) e La cordigliera dei sogni (2019), più l’ultimo lavoro del regista, Il mio paese immaginario (2022), girato durante le manifestazioni popolari in Cile che portarono poi all’elezione di Gabriel Boric nel marzo del 2022.

Occasione ghiotta questa, quella di vedere o rivedere le immagini di un regista il cui lavoro è segnato da quell’evento. Le immagini di Guzmán sono marcate infatti da una cesura netta. Dopo gli inizi all’interno di un movimento vitale e dinamico come quello cinematografico cileno tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo, lo sguardo del regista in esilio è caratterizzato dal dolore della perdita, dal sentimento delle fine di qualcosa che non può tornare.

Come per altri autori del trauma – basti pensare all’intero corpus del cinema di Rithy Panh, ossessivamente legato a quell’immagine mancante del trauma del colpo di stato in Cambogia – il cinema per Guzmán, dall’imponente film in tre parti La batalla de Chile (1975-1979) in poi si pone come baluardo della memoria, necessario spazio per non dimenticare. Allende e il Cile degli anni sessanta sono il corpo e lo spazio-tempo di una continua ricostruzione della Storia, di una ostinata battaglia per la memoria.

Ma in questo percorso qualcosa sopravviene: la consapevolezza, mai del tutto assente, ma sempre più forte, di essere un Io che guarda, che ricorda e che crea. Dopo il ritorno della democrazia in Cile Guzmán torna nel Paese, ma la sensazione è la stessa per lui (esiliato in Francia per molti anni) di quella provata da Ruíz al suo ritorno in patria. La sensazione di non essere più a casa, di riconoscere un luogo e, al tempo stesso, di sentirlo lontano, diverso; di non poter veramente più tornare.

Ecco allora che lo sguardo assume una nuova forma: non si tratta più solo di ristabilire o mantenere una memoria cancellata dalla dittatura; si tratta di fare personalmente i conti con quella memoria, di assumerla come propria. Salvador Allende non è un ritratto dello statista assassinato quell’11 settembre, è la ricostruzione del rapporto che lo stesso regista ha avuto non con lui direttamente, ma con la sua immagine, con la forza simbolica che gli è sopravvissuta.

Dietro ogni storia raccontata, dietro ogni memoria salvata c’è un soggetto che se ne fa carico, che ne riconosce il senso e il valore. Perché ricordare? Perché assumere su di sé il carico della speranza? Perché la memoria, la propria memoria è ciò che permette ancora di immaginare un nuovo futuro, di accettarne la carica utopica. Non è un caso che dopo lo struggente film su Allende, sul suo Allende, Guzmán realizza un altro gioiello come Mon Jules Verne (2005), che fin dal titolo pone il proprio sguardo come guida per la narrazione. A partire dalle sue memorie di bambino, in cui un piccolo mappamondo e i libri di Verne diventavano gli strumenti per compiere viaggi immaginari lungo i più remoti angoli del mondo, Guzmán realizza un film che è anche una dichiarazione di poetica. La dichiarazione di una potenza necessaria, quella dell’immaginazione, senza la quale, ogni trasformazione del mondo non è possibile.

L’immagine del presente o del passato acquista senso quando essa è accompagnata da una facoltà dell’immaginazione che la rende attiva. L’immaginazione e l’utopia sono atti politici, ed è l’immagine cinematografica a renderli tali. Nella trilogia degli elementi, il deserto di Nostalgia della Luce, i fiumi e l’oceano di La memoria dell’acqua e le montagne de La cordigliera dei sogni non sono solo luoghi o spazi fisici, ma occasioni di riflessione poetica sulla memoria, sulla possibilità di raccontare il passato attraverso modalità nuove, in cui il tempo oltreumano delle stelle si connette al tempo della storia recente, in cui il fluire dell’acqua non è solo il simbolo di un eterno ripetersi degli eventi, ma raccoglie tracce di esistenze, di pensieri, di sguardi mistici o politici; in cui, infine, la cordigliera enorme può essere accostata alla montagna di immagini del colpo di stato e della dittatura in Cile.

Ciò che cambia sensibilmente, il piccolo-grande scarto che le immagini di Guzmán mostrano nella sua produzione recente è proprio questo: la necessità, se non l’urgenza, di pensare poeticamente la storia e la politica, di recuperare e mantenere viva l’immaginazione e l’utopia, senza le quali la Storia non è che raccolta di fatti. Non è forse questo ciò che anche Herzog diceva, quando si scagliava contro un cinema capace solo di osservare a distanza il mondo, invece di reimmaginarlo immergendosi in esso?

È in questo contesto che allora va letto l’ultimo film del regista cileno, Cile – Il mio paese immaginario, che fin dal titolo accosta la propria soggettività, il luogo reale e la possibilità di immaginare un futuro possibile. Negli incontri che il regista fa e riprende nel film vibra la potenza dell’utopia di un altro mondo possibile. Negli occhi brillanti dei ragazzi e delle ragazze che parlano di cambiamento, di giustizia, di libertà c’è il senso di una posizione politica, e il senso di un cinema capace di coglierla, fosse anche attraverso un singolo dettaglio. Basta pensare alla sequenza della conversazione con la giovane militante che per non farsi riconoscere indossa un passamontagna. Di lei vediamo solo gli occhi, bellissimi e vivi, che raccontano molto più delle sue parole; che mostrano la sua forza, la potenza dell’immaginazione che la muove.

In questo senso non hanno molta importanza gli eventi che sono avvenuti dopo il film: le difficoltà di Boric nel governo del Paese, la sconfitta del referendum per la modifica della costituzione, la crudele realpolitik che si oppone alla potenza dell’immaginazione. Il mio paese immaginario rimane come documento teorico, poetico e politico di un modo di pensare la memoria, il cinema e la Storia. È da qui che la battaglia per il Cile si rivela una battaglia per nuove immagini, capaci, malgrado tutto, nonostante ogni scetticismo, di immaginare un futuro proprio attraverso il suo rapporto con il passato.

Cile – Il mio paese immaginario. Regia: Patricio Guzmán; sceneggiatura: Patricio Guzmán; fotografia: Samuel Lahu; montaggio: Laurence Manheimer; produzione: Arte France Cinéma, Atacama Productions, Market Chile; distribuzione: Zalab, I Wonder con il patrocinio dell’Ambasciata del Cile in Italia; origine: Cile, Francia; durata: 83’; anno: 2022.

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