Muratova
L’eterno ritorno (2012).

Il 6 giugno scorso è morta la regista di origini moldave, naturalizzata ucraina, Kira Muratova: un pezzo importante della storia del cinema dell’ex Unione Sovietica.

La lunga “onda nuova”, partita dalla Francia alla fine degli anni cinquanta, attraversa l’Europa e arriva a Mosca, attorno alla metà degli anni sessanta. Contagia molto del cinema che accompagna il passaggio dal cosiddetto “disgelo” alla “stagnazione”. Di quelle istanze di libertà e modernizzazione cinematografica, avanzate da una giovane generazione di critici divenuti registi (Godard, Truffaut, Rohmer), Kira Muratova è stata forse l’interprete più sensibile e capace di mostrare tutte le incongruenze, i paradossi e le storture di un processo che, in Unione Sovietica, è proceduto parallelamente alla progressiva (almeno apparente) “destalinizzazione” dell’intero apparato burocratico-politico dello Stato. Troppo libera per i suoi tempi, troppo dissonanti (nel tono, nei temi, nello stile) da un canone duro da superare (quello del realismo socialista) i suoi film, tanto da essere considerati per lungo tempo inservibili o letteralmente invedibili.

Quando il cinema moderno arriva in Russia, Kira Muratova si è appena diplomata al VGIK (Istituto Statale di cinematografia di Mosca), dove dal 1954 al 1959 studia regia, sotto la direzione di Sergej Gerasimov. Nel 1962 sposa il regista Aleksandr Muratov, con il quale realizza, nel 1964, il suo primo lungometraggio, Il nostro pane onesto. Con il marito si trasferisce subito dopo a Odessa, dove gira i film che non nascondono, e anzi rivendicano con forza, le ragioni del dialogo a distanza con i capolavori della Nouvelle Vague francese: Brevi incontri (1968) e Lunghi addii (1971), entrambi invisi al partito dell’allora presidente Brežnev, tanto da essere condannati a rimanere fuori dalla circolazione cinematografica (“sugli scaffali” degli uffici della censura, come si usava dire a quel tempo) per oltre dieci anni, fino al momento in cui la perestrojka di Gorbac̆ёv, dà avvio al definitivo smantellamento del sistema Unione Sovietica, da un punto di vista economico, sociale e culturale allo stesso tempo.

In un caso (Brevi incontri) è la storia di un triangolo amoroso che coinvolge una giovane dirigente di partito a non piacere alla dirigenza sovietica; nell’altro (Lunghi addii) quella del conflitto generazionale fra una madre e suo figlio, simbolo della nuova intelligencja in via di formazione (la prima a non aver vissuto personalmente l’esperienza della rivoluzione e a non aver assistito alla costituzione dello Stato sovietico). Si tratta, in entrambi i casi, di storie che evocano esperienze lontane geograficamente, ma vicine nelle atmosfere e nelle richieste di un movimento giovanile, confluito nei movimenti sessantottini, che – almeno per ciò che riguarda il cinema – dimostra di non conoscere frontiere. Esigenze di cambiamento che i film di Kira Muratova esprimono, oltre che nei temi, attraverso la forma del racconto, emancipato ormai dalle richieste di semplicità e linearità che avevano istruito il cinema a vocazione “realista”.

Senza uscire del tutto da questa linea di tendenza –  riconoscibile (sebbene con declinazioni sempre diverse) dentro il cinema sovietico, almeno a partire dagli anni trenta in avanti – il cinema di Kira Muratova ne sovverte il senso, proponendo ai suoi spettatori un’accezione del tutto alternativa al  “realismo” di Stato. Un cinema che prende forma, questa volta, lontano dai centri del potere, anche cinematografico: non più Mosca, ma Odessa, non più il centro, ma la periferia dell’“impero”. I film di Muratova seguono un movimento centrifugo che li rende, agli occhi dei burocrati della censura, schegge impazzite e fuori controllo e per questo motivo da condannare all’invisibilità.

Sono ancora piccole storie quelle che raccontano: storie che hanno per protagonisti uomini e donne qualunque, proprio come previsto che fosse, secondo i dettami del cosiddetto “realismo socialista”. Personaggi che però, a differenza di Čapaev (protagonista dell’omonimo film, del 1934, dei fratelli Vasil’ev), non sono più capaci di nessun eroismo, nessuna azione esemplare, e assomigliano piuttosto ai protagonisti di tanti film della modernità che, per dirla con Deleuze, si limitano ad andarsene “a zonzo”, ad osservare il mondo che hanno attorno, piuttosto che cercare di modificarlo a loro vantaggio. Nell’Unione Sovietica della fine degli anni sessanta, quel mondo ha l’aspetto immobile di un’epoca, definita significativamente della “stagnazione”.

Nei film di Kira Muratova, nello specifico, quello della vita insonnolita e stanca della provincia, in cui tutto procede lentamente, senza colpi di scena, nel susseguirsi per certi versi casuale di piccolissimi, quasi insignificanti, gesti quotidiani. È il ritmo lento che attraversa almeno i primi due film di Kira Muratova, reso attraverso il rifiuto quasi sistematico del montaggio e l’uso insistito di memorabili piani-sequenza, il cui unico scopo è restituire lo scorrere di un tempo senza interruzioni, né rivoluzioni, rimosse non solo nella forma della rievocazione diretta, ma anche in quella mediata del ricordo.

Quanto più distante possibile dal respiro epico del realismo socialista, il cinema di Kira Muratova si ispira piuttosto, sin dai suoi primi lavori della fine degli anni sessanta, alla letteratura e al teatro di Anton Čechov, con il quale condivide ambientazioni e atmosfere, così come la struttura densa, ma allo stesso tempo vuota, di dialoghi in cui molto si dice, proprio per non dire nulla. Un’eredità, quella čechoviana, che diventa persino dichiarata, molti anni più tardi, in un film apertamente ispirato all’opera del grande scrittore russo: Motivi čechoviani (2002).

Un filo rosso riconoscibile attraversa, dunque, nel corso degli anni, la filmografia della regista ucraina. Della prima, innovativa declinazione del realismo “delle piccole cose”, riconoscibile in Brevi incontri e Lunghi addii, i film successivi di Kira Muratova – realizzati a partire dagli anni ottanta, dopo una lunga pausa creativa – non sono che un’ulteriore, incessante rivisitazione, in direzione di un’operazione, sempre più esposta, di “caricatura” del reale, mostrato nello stile quasi grottesco di film come Sindrome astenica (1989), in cui la profonda melanconia che affligge il professore, protagonista del film, e i suoi studenti, è in realtà la malattia di un’intera società, così come Tre piccoli omicidi (1997), che mostra la quasi totale gratuità del gesto criminale, svuotato di ogni pensata volontarietà.

In un caso come nell’altro, il mondo si mostra attraverso la lente deformante di un cinema che non smette di essere fuori da ogni schema riconoscibile, ma non perde di vista la realtà del tempo e dei luoghi che racconta. Sono veri e propri paradossi quelli che Kira Muratova mette in scena, nei quali il reale non può emergere che nel momento in cui diventa “irreale”, incredibile, assurdo, illogico. Un po’ come è ormai da tempo la Russia, prima di El’cin poi di Putin, della quale Kira Muratova è stata testimone: condannata a un progresso che è in verità un regresso, a una condizione che cambia per tornare a essere ciò che è sempre stata e forse non può non essere.

L’eterno ritorno è il titolo dell’ultimo film della regista recentemente scomparsa: è il tempo del cinema, che ricomincia ogni volta da dove si era interrotto, fin al punto di ridursi qui in pochi quadri che si susseguono, ripetendosi quasi senza differenze rilevanti. A qualcuno toccherà ricominciare da là dove Kira Muratova si è fermata. Prima di allora i suoi film continueranno ininterrottamente a raccontare la storia di un paese che è stato insieme mille e nessun paese, come sapeva bene la regista dalle molteplici provenienze.

Riferimenti bibliografici
AA. VV., Kira Muratova, in “Moviement” (2009).
A. Cervini, Lunghi addii (Dolgie provody, 1971), in A. Cervini, A. Scarlato, a cura di, Il cinema russo attraverso i film, Carocci, Roma 2013.
D. Dottorini, Kira Muratova, Enciclopedia del Cinema Treccani (2004).  

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