Per essere Dante bisogna inventare una lingua oppure viaggiare nell’aldilà: come può un regista essere all’altezza di quello che Harold Bloom ha definito “il secondo centro del Canone occidentale” (primo Shakespeare)? Non basta ambientare un film a Firenze e imbottirlo di atmosfere da “città dolente”, come succede in Hannibal (Scott, 2001) – dove la sceneggiatura di Mamet e Zaillian si spinge fino a concepire un “fiero pasto” che fa pensare al conte Ugolino – e in Inferno (Howard 2016, dal best seller di Dan Brown), in cui un complicato complotto a base di virus (!) ha come chiave di lettura il XXV canto del Paradiso. Anche se bisogna riconoscere che proprio queste pellicole di stampo cineturistico ribadiscono l’identità italiana come “dantità” non tanto linguistica quanto culturale: un intreccio di politica e religione, di storia e metafisica, di crudeltà e forma. Ma questa “dantità” caratterizza anche il cinema italiano?

Ovviamente, la commedia dantesca non è per niente “all’italiana”: mentre il declino del Neorealismo rientra nella mutazione antropologica che conduce l’Italia dalla civiltà contadina (cattolica) alla modernità capitalista, giusta la lettura di Pasolini, la commedia metafisica si oppone alla tragedia pagana nel segno della buona novella (Cristo come happy end, la resurrezione per tutti). Il lato volgare di Pasolini sta dentro il suo tentativo di riflettere la nuova questione della lingua (che nel Neorealismo e poi nella commedia all’italiana è evidente nel plurilinguismo modellato sulla sopravvivenza dei dialetti), tentativo che attraversa tutta una produzione che va dal saggio La volontà di Dante a essere poeta (1965) – molto criticato dagli accademici a cui Pasolini allude nella scena del “primo convegno internazionale dei dentisti dantisti” in Uccellacci e uccellini (1966) – al postumo La Divina Mimesis, un progetto del 1963 che si propone di fustigare i peccatori dell’epoca neocapitalista (i conformisti, i cinici, i piccoli benpensanti, i servili ecc.).

Finisce che il Pasolini della “trilogia della vita” si mette a epitomizzare il Decameron di Boccaccio, mentre il comico toscanaccio Roberto Benigni – che si era truccato da sommo poeta per uno sketch del programma televisivo L’altra domenica (1976) – termina virtualmente la sua carriera con una tournée Tutto Dante (2006-2013) in cui mischia il volgare umorismo sull’attualità con la recitazione di un volgare talmente lontano dall’attuale italiano popolare  (quello calato dall’alto della televisione, come ha spiegato Tullio De Mauro nella sua Storia linguistica dell’Italia unita datata anch’essa 1963) da aver bisogno di spiegazioni.

Se il letterato Pier Paolo Pasolini – ma dopo il suo esordio cinematografico con un film (Accattone, 1961) che inizia con i versi del canto V del Purgatorio «l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno / gridava: O tu del Ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l’eterno / per una lacrimetta che’l mi toglie» – tenta senza riuscirci un remake contemporaneo della Divina Commedia (“Intorno ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita”), Federico Fellini nel 1991 (dopo Ginger & Fred, il film anti-berlusconiano dove fra i tanti spot neotelevisivi ce n’è uno con Dante che pubblicizza un orologio Beatrix) progetta direttamente una versione televisiva ad alta definizione (con l’assistenza della Sony), basata su una sceneggiatura di Dino Buzzati (poi autore di un Poema a fumetti che aggiorna il mito di Orfeo con immagini mutuate da Man Ray, Dalì e lo stesso Fellini) e articolata in vari episodi da affidare anche ad altri registi (Nagisa Oshima e Peter Brook ma anche Annaud, Wenders, Coppola).

Nonostante Fellini sia “il più rappresentativo apostolo del verbo dantesco sullo schermo” (la qualifica è di Gian Piero Brunetta), il progetto Inferno non va in porto; curiosamente, però, nel 1990 sono già andati in onda sull’emittente inglese Channel 4 i primi quattro episodi (da 22 minuti l’uno) della miniserie sperimentale A TV Dante, firmata da Peter Greenaway e dal pittore Tom Phillips (già autore nel 1983 di un libro a tiratura limitata, Dante’s Inferno, da lui tradotto e illustrato), ciclo che ha poi un seguito firmato da Raul Ruiz (canti IX – XIV dell’Inferno).

Evidentemente, la frontiera sperimentale aperta dall’HDTV (salto evolutivo dell’elettronica prima della fase digitale) genera il desiderio di usare i nuovi media per trattare i classici, o forse di ancorarsi ai classici per affrontare la selva oscura delle tecnologie post-cinematografiche, dei linguaggi videoartistici: cosa meglio di Dante per dare senso agli effetti speciali elettronici? (O anche solo all’antica tecnica di dipingere a mano direttamente sulla pellicola come succede nel cortometraggio di Stan Brakhage The Dante Quartet, del 1987, otto minuti che hanno richiesto sei anni di lavoro).

La visita all’aldilà Fellini l’aveva già tentata col Viaggio di G. Mastorna, il film mai realizzato (anche su sconsiglio del sensitivo Gustavo Rol) che iniziava con un aereo che fa un atterraggio di fortuna in una piazza dominata da una cattedrale gotica e poi proseguiva in un albergo in cui il protagonista vede un telegiornale in cui si dà notizia di un aereo precipitato: insomma, G. Mastorna detto Fernet è morto e non lo sa, come poi succederà in una serie di film fra cui Una pura formalità (Tornatore, 1994) che si apre con la soggettiva di una corsa in una selva oscura (più prosaicamente un bosco notturno, che però si rivelerà chiave di lettura per le vicende del protagonista, dall’emblematico nome Onoff). Ma forse nel Mastorna il Virgilio di Fellini non è più Dante ma piuttosto Edgar Allan Poe, non lo stilnovista inventore della donna Beatrice ma piuttosto il gotico inventore del bestemmiatore Toby Dammitt (protagonista del racconto Non scommettete la testa col diavolo che diventa l’inquietante episodio felliniano di Tre passi nel delirio). O forse no, visto che il grande aggettivatore Harold Bloom – che continuamente ci trasferisce Dante come uno spirito indomito, energico, esuberante, polemico, sfacciato, aggressivo, altero, audace, impaziente, agguerrito, egocentrico – alla fine ce lo consegna come “una sorta di sciamano”.

Nell’arco dei decenni abbiamo avuto molte versioni di Dante, da quello antifascista di Carmelo Bene (la Lectura Dantis fatta in cima alla Torre degli Asinelli per il primo anniversario della strage alla stazione di Bologna) a quello einsteiniano di Carlo Rovelli (che in La realtà non è come ci appare interpreta il canto XXVII del Paradiso come una descrizione della tre-sfera, soluzione del problema antico di eliminare i bordi dell’Universo); mai però un biopic su Dante. Ci penserà quest’anno, con spirito rosselliniano, Pupi Avati; anche se, parlando di televisione, va ricordato che per i 700 anni dalla nascita (1965) la Rai mise in onda in tre puntate Vita di Dante “di” Giorgio Prosperi (regia Vittorio Cottafavi), protagonista Giorgio Albertazzi con la quattordicenne Loretta Goggi nella parte di Beatrice Portinari.

In attesa, celebriamo i 700 anni della morte di Dante Alighieri ritrovandoci in una selva oscura mondiale, uniti nei gironi infernali del Covid-19 (dai colori delle fiamme: giallo, arancione, rosso), vedendo nelle vaccinazioni una specie di purgatorio, desiderosi di arrivare a dire: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”.

Riferimenti bibliografici
AA.VV., Fellini & Dante: l’aldilà della visione, Sagep, Genova 2016.
G. Casadei, Dante nel cinema, Longo, Ravenna 1996.
A.A. Iannucci, a cura di, Dante, Cinema and Television, University of Toronto Press, Toronto 2004.
E. Patti, Pasolini after Dante, Routledge, Londra 2016.
J. Risset, Fellini e Dante in Id., L’incantatore. Scritti su Fellini, Scheiwiller, Milano 1994.
D. Zanelli, L’inferno immaginario di Federico Fellini, Guaraldi, Rimini 1995.

*L’immagine di anteprima dell’articolo è un’opera di Emilio Isgrò appartenente al progetto “Maledetti toscani, benedetti italiani”, cancellazione in tre tempi (2014).

Dante Alighieri – Firenze 1265, Ravenna 1321. 

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