A cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio Il Manifesto ospitò una singolare rubrica di recensioni di libri che aveva l’ambizione di parlare di libri a partire dalla loro copertina. Ideato da Marco Belpoliti, questo fortunato esperimento di interpretazione visiva è oggi raccolto in Diario dell’occhio, uscito qualche anno fa per Le Lettere. Dovevo pensarci guardando la copertina de Il cine-capitale. Il «Cinema» di Gilles Deleuze e il divenire rivoluzionario delle immagini del filosofo giapponese Jun Fujita Hirose, che la casa editrice veronese ombre corte ha tradotto ora in italiano dal francese. Vi si vede una sala di cinema, con le sue file di poltroncine rosse vuote davanti a uno schermo bianco disertato dalle immagini che abitualmente lo popolano e a cui deve la sua stessa esistenza. Dentro lo schermo hanno trovato la loro collocazione il nome dell’autore, il titolo del libro e il nome del prefatore. Oltre i loro nomi, qui pare non esserci presenza umana possibile. Sembra che la sala non esista che per essere abbandonata da coloro che sino a qualche settimane fa si ostinavano con piacere a frequentarla. Oltretutto in questo momento non sappiamo quando i cinema riapriranno e in che condizioni sarà l’intero mondo della cultura in generale, dopo lo stop forzoso imposto dalle misure radicali adottate in Italia per contrastare l’epidemia. Uno spettro dunque – oggi più che mai – aleggia su quell’arte che più di tutte ha saputo evocare gli spettri e che più di tutte ha saputo soprattutto parlare dei nostri fantasmi. Anzi, potremmo dire che nulla come il cinema ha parlato e parla ai nostri fantasmi, a quelli intimi come a quelli collettivi.
È interessante notare che anche le prime pagine del libro di Fujita Hirose non siano popolate di uomini, ma di animali. Animali dello schermo, certo, non quelli che dilagano negli spazi deserti delle nostre città in questo momento. Ma comunque animali in insiemi indistinti, incombenti ed enigmatici, come capita ne Gli uccelli di Alfred Hitchcock. Qui la vita animale non è più ridotta né al rango di strumento da compagnia né di carne da mangiare. È piuttosto un vivente di cui per lo più non sappiamo nulla, ma a cui il cinema si spinge sino ad attribuire una soggettività. Sono questi animali i veri soggetti del cinema, come ci viene incontro in queste pagine, attraverso una mobilitazione in massa di uccelli in realtà del tutto ordinari, come quelli che abitualmente vediamo attorno a noi: passeri, piccioni, gabbiani, ma in quantità esorbitanti. Il cinema non convoca né la maestà dell’aquila né animali speciali o singolari, ma uccelli del tutto normali. Li prende come sue maestranze, come manodopera a basso costo, proprio nella loro caratterista assenza di qualità, e li sfrutta per i suoi fini. Come un’immensa macchina li raccoglie, assegnando loro una visibilità inaudita.
Riconoscerete in questo una celebre posizione di Immagine-movimento di Gilles Deleuze, che qui riecheggia: gli uccelli ordinari costituiscono le entità elementari, di cui il cinema si serve per tratteggiare un disegno complesso a partire appunto da quantità semplici di elementi ordinari. Dunque è possibile raggiungere un salto qualitativo per un accumulo quantitativo di questi elementi ordinari. Il cinema sembra porsi – per Fujita Hirose come per Deleuze – nel punto magico di interconnessione tra le differenze singolari – ovvero i processi qualitativi – e la dimensione numerica di elementi, ovvero dei processi strettamente quantitativi. Questo punto segna al contempo la zona di indistinzione tra qualità e quantità, ossia la possibilità di produrre qualità mediante quantità e di discorrere di qualità in termini di quantità (di quantità di potenza). Il cinema manipola indifferentemente masse di oggetti, di luoghi, di stanze, di entità, di mobilia, di animali, di umani. Singolari le critiche in questo senso che Ėjzenštejn ricevette in Unione Sovietica per il fatto che – come recita l’accusa mossagli dal Primo Congresso dei lavoratori creativi nel 1934 – «In Ottobre, c’era solo una folla» e non un popolo, perché «i registi [si noti il plurale generico] non conoscevano il popolo e pensavano che i loro film dovessero centrarsi solo sulle masse».
Dunque, con termini sicuramente lontani dal libro, si potrebbe tuttavia discernere in questa macchina che chiamiamo “cinema” una potenza trasformatrice che in realtà discende unicamente dalla sua natura dispositiva. Essa dis-pone le cose differentemente e ne dispone: prende quantità (masse) e ne fa qualità. Fa delle masse popoli, ma popoli sconosciuti al potere, anche a quello rivoluzionario che vorrebbe amministrarne le vite. È soprattutto questo secondo aspetto, mi pare, a costituire l’operazione teorica di fondo del libro, interessato a cogliere le continuità tra cinema e capitalismo, e tra sistemi di produzione di merci e/o di immagini. Così quel salto qualitativo è anche sfruttato dal capitalismo per far produrre alle immagini il loro plusvalore. La sua formula è: produrre attraverso immagini ordinarie qualcosa di straordinario. È un lavoro collettivo, un po’ come lo sguardo è prodotto dalla contemporaneità della vista di due occhi differenti: richiede la cooperazione dei differenti in un rapporto differenziale. Come si cancella però l’evidenza di una logica del capitale che è all’opera fin dentro le immagini che più ci appassionano, quelle che – come una certa vulgata non smette di dire – “ci fanno sognare”?
Se ci ostiniamo a chiamare le immagini di Hollywood “sogni” è perché ci illudiamo di poterne seguire la traccia luminosa e di realizzarne le possibilità “senza nessuna preoccupazione economica”, come accade nei sogni veri e propri. Evidentemente questa rimozione dell’economia costituisce la funzione ideologia propria del cinema, come per lo più lo conosciamo, nella sua capacità di far sentire a portata di mano la realizzazione di ogni desiderio e rendendo invece – si potrebbe aggiungere – così faticosa la realizzazione dei propri desideri effettivi, che non è evidentemente altrettanto facile da ottenere. Lo scambio tra denaro e immagine, che è la dialettica più propriamente hollywoodiana, si nasconde dentro lo schermo, non dietro. Ma quello stesso è il punto in cui le immagini fanno esperienza di un’usura che le porta a non essere altro che cliché, luoghi comuni, stereotipi. «Nient’altro che cliché, dappertutto cliché», diceva Deleuze in L’immagine-movimento.
La fabbrica dei sogni prova ad arrestare l’emorragia di senso, per non smettere di produrre un proprio plusvalore specifico, appunto con l’inflazione dei sogni e della dimensione narrativa, atta a “catturare” – come si dice – lo spettatore. Ovviamente non si tratta di continuare con questa solfa, ma di uscire dalla dimensione pervasiva e invadente dei cliché. È il problema di Godard: come produrre «non un’immagine giusta» – magari un’immagine che intercetti il gusto del pubblico e confermi il suo sicuro successo – ma «giusto un’immagine». Sarà forse un’immagine qualsiasi, ma proprio in questo suo non essere giusta, ma solo giusto un’immagine, potrà realizzare la vocazione rivoluzionaria di tutte le nostre immagini. Solo allora potrebbe cominciare la sovversione dell’immagine. Solo allora potrebbe aver luogo il divenire rivoluzionario del cinema stesso.
Per farlo bisogna forse innanzitutto intendere cos’è una immagine. Ovvero, come forse potremmo dire in termini spinoziani, che non sarebbero stati certo estranei a Deleuze, occorre chiedersi cosa può un’immagine. Rispetto all’uso rappresentativo che il cine-capitale ne fa – e per cui un’immagine sta per qualcosa – si tratta di emancipare le immagini ordinarie dal processo di valorizzazione capitalistica, entrando in quella situazione che deleuzianamente viene descritta dal libro come «situazione puramente ottica e sonora». Fujita Hirose scrive: «Le immagini si emancipano quando assumono una “realtà materiale autonoma”, quando fanno valere il loro aspetto virtuale in quanto tale, nella sua forma pura e diretta». È allora che un’immagine cinematografica inizia a servire per chiamare le cose. È un nome, scrive, o, come anche si potrebbe forse dire, è un appello al reale e del reale. Forse più che un nome, è come quel rumore, quell’urlo, a cui più spesso l’immagine è stata paragonata dalle sperimentazioni che hanno voluto liberarla dal suo uso ristretto, imposto dal capitalismo. È un’invocazione, mi sembra, ma nei termini del film di Debord, Hurlements en faveur de Sade.
Noi non chiamiamo le cose solo con il loro nome, che spesso neppure conosciamo. Ci rivolgiamo a loro con interiezioni, esclamazioni, intercalari più diversi. In questo senso l’immagine non assomiglia alla parola, se è vero che la parola non mobilita le persone, mentre per un divenire rivoluzionario del cinema occorre che le immagini alimentino l’azione. Nella sua massima degradazione, la parola finisce per essere utile “solo [per] dire i prezzi delle cose”. È la moneta morta, con cui interpretiamo il mondo, ma che non siamo capaci di trasformare o comunque ci guardiamo bene dal farlo. È precisamente questo il punto in cui veniamo travolti dall’abbondanza informativa dell’immagine, che non si riduce mai al suo aspetto strettamente comunicativo.
Torniamo allora al momento generativo del cinema, là dove il semplice dà origine alla complessità. Il migliore esempio di questa complessità dell’assolutamente semplice mi sembra che sia nel libro il cinema di Ozu. Lo dice anche Deleuze: in Ozu tutto è banale e ordinario, non c’è niente che non lo sia. Neppure la morte assume quel grado di rilievo – più rilevante degli altri accadimenti – che le dà un’intonazione idilliaca. Del resto, Ozu è stato capace di girare un film intitolato Buongiorno e, come Fujita Hirose giustamente ricorda, tutti gli altri suoi film non sono che variazioni sul tema di una stessa sobrietà quotidiana, che mai ambisce ad ammantarsi di un’aura di originalità (qualcosa del genere capita, in anni più vicini a noi, nel cinema di Yamada, in cui anche eventi come lo tsunami vengono invocati senza drammi né isterismi). Qui l’immagine diviene puramente visiva: mostra ciò che mostra, secondo un procedimento che fa di ogni immagine una vera e propria contro-effettuazione cinematografica. Qui sono le immagini che divengono il vero e proprio soggetto, l’eccesso del proprio essere, che ne precede qualunque valorizzazione capitalistica. Divengono pienamente quella «saturazione di segni magnifici immersi nella luce della loro assenza di spiegazione», secondo la densa definizione di Manuel de Oliveira, ripresa anche da Godard.
È nel senso della dimensione puramente visuale dell’immagine – questa potenza virtuale non ancorata a nessuna attualizzazione – che occorre leggere la scena della cabina telefonica a vetri de Gli uccelli in cui Melania si rifugia. In un’imprevista inversione delle parti, la cabina si rivela essere una vera e propria gabbia e la donna un animale in trappola. Lo stesso capita quando le case pretendono di essere ermeticamente chiuse all’assalto che proviene da fuori. Dismettendo la loro capacità difensiva, quelle stesse case diventano invece «una vera e propria cassa di risonanza nella quale i personaggi sentono tutti i rumori del battito d’ali e tutti i cinguettii degli “uccelli di tutto il mondo”». La casa si fa camera di amplificazione acustica in cui, grazie all’assalto degli uccelli, è possibile sentire tutti i rumori del mondo. Anche il silenzio sarà qui diverso. Sarà un silenzio carico di minacce. Sarà la forma sonora di una situazione fuori dall’ordinario, prodotta dall’accumulo di tratti ordinari. Qui un altro ascolto apre a quell’altra vista sul mondo e sull’esistente che occorre sempre di nuovo creare. E che è sempre sul punto di crearsi.
È a questo punto che la cifra deleuziana della credenza assume la sua piena validità: occorre credere nel mondo così com’è, occorre respingere il sogno dell’ideale, l’immagine variopinta nella quale risiederebbe un tesoro di speranze e di possibilità, veicolate commercialmente dal film in una vera e propria compravendita delle immagini-sogno. Questa esigenza della credenza è decisiva perché solo là le cose iniziano a risuonare diversamente:
Se non credi alla tua ferita, lei non ti farà mai segno. Se non credi alla tua tela, la sua superficie non si porrà mai come un muro di impossibilità. Ma anche, se non credi al mangiare, esso non si identificherà mai con il parlare; se non credi al ragno, lui non diventerà mai un animale piatto senza organi.
È solo giunti in fondo a questa strada che si produce quel divenire rivoluzionario a cui attendono le immagini. È solo allora che si diventa popolo, se il popolo diventa dell’altro e la rivoluzione stessa non è mai la rivoluzione attesa. Il cinema si pone proprio lì, nel punto di intersezione tra le cose che sono nel mondo e a cui occorre credere, e l’immagine che mostrano fuori dalla consegna a cui le assegna il cine-capitale e il suo impero dei segni.
Jun Fujita Hirose, Il cine-capitale. Il Cinema di Gilles Deleuze e il divenire rivoluzionario delle immagini, prefazione di Ubaldo Faldini, trad. it. di Gianfranco Morosato, Ombre Corte, Verona 2020.