Il cervello di Abatantuono
Sognando la California (1992).

Le immagini notturne sono quelle di una Milano livida e piovosa, il cui correlativo musicale è rappresentato dalle note del pop-rock progressivo della Premiata Forneria Marconi: “Chi ha paura della notte, chi ha paura?”. C’è da aver paura, perché questa notte è attraversata dalle anime inquiete che si riconoscono in una serie di subculture giovanili che hanno ormai perso ogni connotazione politica e si ispirano piuttosto alle suggestioni di un certo cinema post-apocalittico americano, quello dei Guerrieri della notte (Hill, 1979) e di 1997Fuga da New York (Carpenter, 1981), per intenderci. Ragazzi duri, oltre il limite, motociclisti ricoperti di tatuaggi, borchie e catene, con creste punk, vestiti di pelle, acconciature new-romantic, trucchi che alludono ai Kiss e ad altri modelli inquietanti e fantascientifici, volutamente eccessivi e definitivamente alternativi rispetto ai rassicuranti stili di vita borghesi e diurni. Un mondo alieno, sconcertante, tribale, magistralmente reso dalla fotografia del grande Luigi Kuveiller, uno che aveva dato un contributo essenziale a definire l’iconografia del cinema politico italiano, lavorando con Elio Petri e Marco Ferreri, assaggiato la Hollywood classica (Billy Wilder) e l’avanguardia (Paul Morrissey) e dipinto l’universo horror iperrealista di Dario Argento (Profondo Rosso, 1975).

Questo inizio folgorante, questo piccolo saggio di bravura non è l’avvio di una versione all’italiana di Strade di Fuoco (Hill, 1984) o di Mad Max (Miller, 1979), perché – come detto – siamo a Milano e non a Los Angeles, Chicago o Manhattan. Questi giovanotti non sono gli angeli caduti di una immensa e spietata giungla metropolitana dove si è andata incontrando e scontrando gente proveniente dai quattro angoli dell’universo. No, quelli sono i figli delle anime tenere e povere che avevano fatto l’Italia del boom, gli eredi di Lulù Massa catapultati in fabbrica o in azienda dai campi della via Gluck, i discendenti – più o meno integrati nella società dominata dai media e da un nuovo benessere economico – dei braccianti lucani, di Rocco e dei suoi fratelli, che erano saliti per dare braccia ed energia alla grande industria del Nord, inseguendo un sogno di emancipazione dal bisogno.

Infatti, quando meno ce l’aspettiamo, ecco che il registro epico e apocalittico del film viene improvvisamente ribaltato dall’arrivo di una corpulenta figura riccioluta in cui lo spettatore può riconoscere Diego Abatantuono. In questo caso nei panni di Domingo, improbabile Ras del quartiere, al quarto (e ultimo) dei film interpretati con i fratelli Vanzina, che ne erano stati in qualche modo gli inventori. Sono stati loro, infatti, a dare forma alle estemporanee gag, mettendo la formidabile girandola di invenzioni linguistiche (“Vade retro, Saragat!”, “È scoppiata la vongola del gas” e così via) al servizio di una maschera stralunata di sottoproletario gradasso e incapace, una specie di anello di congiunzione fra l’Italia che salutava malinconicamente la tradizione paesana e si affacciava gioiosa in quella postmodernità descritta da Marco Gervasoni in un suo bel libro sugli anni ottanta (Gervasoni 2010).

Del resto, l’invenzione di Abatantuono era stata in realtà l’intuizione di uno spin-off, dal momento che il comico pugliese-milanese aveva svolto un geniale cameo nel film in cui Carlo Vanzina aveva diretto un altro gruppo comico di grande popolarità televisiva, I Gatti di Vicolo Miracoli, troppo intellettuale, troppo legato ancora agli schemi surreali della comicità anni settanta, quella dei Gufi e di Cochi e Renato, per poter davvero funzionare nel cinema del nuovo decennio, anche se almeno due dei membri del quartetto avrebbero segnato l’epoca (Umberto Smaila e Calà), abbassando di molti gradi le proprie ambizioni. Ma ciò non toglie che Arrivano i Gatti (1980) resti un piccolo capolavoro di umorismo “ebraico-veronese”, come viene definito nel film stesso, regalando un piccolo romanzo di formazione disincantata e a tratti struggente.

Ma il successo di Abatantuono era solo il primo segnale di una clamorosa sintonia fra i due fratelli e lo spirito degli anni ottanta, di cui saranno sempre condannati a rappresentare un emblema, nel bene e nel male. Nel 1983, infatti, ottengono un altro straordinario successo recuperando la musica e le atmosfere degli anni sessanta in Sapore di Mare, con una operazione di chirurgia plastica postmodernista sulla vocazione nostalgica dei tempi che si andavano profilando (Morreale 2009). Ancora una volta, i Vanzina dimostrano una strana preveggenza allorché si rifiutano di adagiarsi sul sequel e preferiscono imprimere una ulteriore svolta, utilizzando uno degli elementi vincenti del film – la vacanza, il suo clima sospeso, la sua spugnosità simbolica legata alla realizzazione nel/del tempo libero (Eugeni 2016)– con Vacanze di Natale (1983), il film che notoriamente inaugura il filone dei cosiddetti cinepanettoni e terrà in piedi l’industria cinematografica italiana per il ventennio a venire (O’Leary 2013).

Ancora, l’immaginazione vanziniana doveva estrinsecarsi in tre film proverbiali, legati ad altrettanti fenomeni che avrebbero dimostrato la svolta antropologica e politica del Paese. Parliamo di Sotto il vestito niente (1985), un giallo pretestuoso che serve a raccontare che la moda non era solo la moda, ma una chiave di lettura della realtà che si avviava ad essere la seconda industria nazionale sullo scenario globale. Ancora, Yuppies, giovani di successo (1986), dove viene fornita una serie di ritratti di “nuovi mostri” della Milano da bere che ha poco da invidiare ai vitelloni felliniani degli anni cinquanta o alle figure che Risi aveva tratteggiato nelle sue caricature degli anni sessanta. Infine, I miei primi quarant’anni (1987), sull’autobiografia di Marina Ripa di Meana, dove si narra il cortocircuito del femminismo, tra imprevedibili modelli di emancipazione edonistica e un diverso rapporto con l’avanzare del tempo.

Benché la loro carriera continui per altri trent’anni, con il mutato clima sociale e politico dettato da tangentopoli prima e dalla discesa in campo di Berlusconi, è come se i Vanzina avessero perso la loro proverbiale leggerezza e una nota plumbea permeasse il loro universo narrativo. Un piccolo-grande film di commiato, Sognando la California (1992), con momenti di comicità magistrale (Nino Frassica che fa l’imitazione di Volonté) che fanno da contrappunto a un viaggio fra le radici delle proprie mitologie personali, e poi il ripiegamento in una infinità di titoli da robivecchi, nei quali il repertorio della commedia all’italiana con un tocco alla Vanzina viene costantemente riproposto in forme modulari. Un modello produttivo e realizzativo artigianale, che consente loro di sopravvivere discretamente nella propria comfort zone, mantenendo però il cinema in primo piano, senza mai davvero tradirlo in favore della serialità televisiva.

Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio, al secolo I soliti idioti, ricalcheranno sulla inconfondibile iconografia di Carlo e Enrico Vanzina due formidabili personaggi, due monellacci romani di abominevole cinismo e capaci di compiere ogni tipo di malefatta con assoluta e spudorata naturalezza. La trovata è indubbiamente efficace, non si può negare, ma può produrre un equivoco ingiusto. Certo, Carlo Vanzina ha diretto, nel connubio inscindibile col fratello Enrico, una serie di film che raccontano un mondo e personaggi di spregevole cinismo, una qualifica che può anche adattarsi a certi aspetti della loro carriera. Ma sarebbe come attribuire a Monicelli o a Scola i difetti morali del tipo antropologico incarnato da Sordi o Gassman. La verità è che, come testimoniano i tanti tentativi di frequentare generi diversi (in particolare il giallo o la commedia romantica), i Vanzina sono soprattutto stati degli irrequieti anarchici, desiderosi di graffiare il moralismo e le convenzioni consolidate, con un fondo di malinconico romanticismo. Due amabili e intelligentissimi cialtroni, che amavano travestirsi da cinici, ma la cui eredità si segnalerà soprattutto per la voglia gioiosa di fare cinema e un ingenuo stupore per il piacere di vivere. Il lato solare degli anni ottanta, la parte buona del postmoderno all’italiana.

Riferimenti bibliografici
R. Eugeni, Vacanza, in R. De Gaetano, a cura di, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis, Udine 2016.
M. Gervasoni, Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010.
E. Morreale, L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma 2009.
A. O’Leary, Fenomenologia del cinepanettone, Rubbettino, Roma 2013.

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