È il 1937. Un uomo affacciato a un balcone si rivolge a una folla di persone che lo acclama, tendendo le braccia verso l’alto. Gabriele D’Annunzio (Sergio Castellitto) è accanto a lui, ma defilato. Guarda la scena in silenzio, quasi con dolore e, poco prima di andare via, si ferma ad abbracciare il corpo immobile di un soldato del picchetto d’onore. Si tratta di un abbraccio che non prevede reazioni, così come non avevano sortito reazioni le parole che aveva rivolto a Mussolini poco prima. È il 1937. Gabriele D’Annunzio affacciato a un balcone del Vittoriale si rivolge a un gruppo di persone che, mostrando il Gonfalone della Reggenza Italiana del Carnaro, lo acclama, battendo le mani. Alla fine del discorso, il Vate si accascia sulla balaustra di ferro, gettando il braccio verso il vuoto – quasi a voler stringere i corpi lontani in un abbraccio di fratellanza: non c’è nessun soldato a guardargli le spalle, soltanto un picchetto familiare in cui sono stretti Giovanni Comini (Francesco Patanè), Luisa Baccara (Elena Bucci), Amélie Mazoyer (Clotilde Courau) e Giancarlo Maroni (Tommaso Ragno).
Il ritratto di Gabriele D’Annunzio in Il cattivo poeta di Gianluca Jodice è una questione di gesti, più che di parole. Dal Vittoriale, il Vate – il Comandante, il Vecchio, il “dente guasto” da ricoprire d’oro o da estirpare (riprendendo la metafora utilizzata da Achille Starace, Fausto Russo Alesi, in una delle prime scene del film) – osserva con sospetto e preoccupazione la rapida evoluzione del fascismo in Italia, nutrendo particolari timori nei confronti di una possibile alleanza con la Germania. Già controllato dal prefetto Giovanni Rizzo (Massimiliano Rossi) e sedotto dalle cure ambigue di Emy Heufler (Janina Rudenska), Gabriele D’Annunzio è indebolito, ma ancora in grado di costituire una minaccia. Il film lascia in secondo piano il rapporto con Mussolini per privilegiare il legame del Vate con Giovanni (o Gianni) Comini, il giovane “federalino” di Brescia, inviato a Gardone Riviera con lo scopo di monitorare e documentare qualsiasi possibile tentativo rivoltoso o contrario al regime da parte di D’Annunzio.
C’è un unico – ed emblematico – accenno al rapporto tra il Comandante e Mussolini, in una conversazione tra Baccara e Comini. Ricordando l’Impresa di Fiume, la pianista afferma che Mussolini non è stato in grado nemmeno di copiare la coreografia dannunziana del potere, limitandosi a una cattiva rappresentazione di quest’ultima che lo ha reso un “vigile urbano” affacciato a un balcone. Anche nell’unica scena in cui i due si incontrano a Verona, D’Annunzio arranca e fatica a tenere il passo di Mussolini che, senza fermarsi a salutarlo, procede nella sua marcia. In questo caso, la scelta di non inquadrare mai direttamente il volto di Mussolini e di riprenderlo sempre di spalle – anche nel momento in cui D’Annunzio gli sussurra che in Germania è andato “a scavarsi la fossa” – mette ben in evidenza il taglio scelto da Jodice: il film non è una denuncia nei confronti del fascismo – di cui pure oggi si sentirebbe l’esigenza e, in alcuni casi, la necessità –, bensì la descrizione del tentativo di D’Annunzio di intervenire su un quadro politico. Anche l’utilizzo di immagini di archivio – come il filmato sul viaggio in Germania di Mussolini, che precede la proiezione privata di un film di Walt Disney al Vittoriale – testimonia, da un lato, il progressivo indottrinamento e assoggettamento delle masse; dall’altro, l’incapacità di azione di D’Annunzio che, di fronte a quelle immagini, abbandona la stanza con rabbia. D’Annunzio, da “cattivo poeta”, fallisce: si tratta di rileggere lo schema classico dell’uomo politico che viene affiancato e guidato dall’intellettuale, in una prospettiva inedita in cui l’uomo politico non è Mussolini (sul quale D’Annunzio non ha alcun potere) ma Comini.
Anzi, Jodice costruisce il personaggio di Comini in maniera molto più complessa rispetto a quello di D’Annunzio e lo stesso film è sbilanciato sul punto di vista del federale che – a differenza del Vate – esegue ordini, viaggia, si innamora, osserva, soffre: in altri termini, “l’incarico” di sorveglianza ricevuto nella primavera del 1936 è l’evento che innescherà in lui un processo di ripensamento nei confronti del fascismo, fino all’espulsione dal partito, riportata anche nei titoli di coda. Se, dunque, il meccanismo di tensione tra storia e finzione è ancorato tutto attorno al personaggio di Comini, D’Annunzio è soltanto una voce oracolare che, da vittima di “una veggenza infallibile”, riconosce nel federale il “testimone” della futura configurazione storica.
D’Annunzio è rinchiuso nel suo museo pieno di oggetti e medicine, rifugio e ospizio della carne, ormai incapace di legare le sue parole alla concretezza di un’azione. E, in effetti, parlando con Comini, non può che dirgli che “il linguaggio rende estraneo ciò che è intimo”, costruendo “una versione cupa e deteriore” di “un’idea bella”. Le uniche parole che agiscono nel presente sono quelle che il Vate utilizza per descrivere il paesaggio circostante: nel loro primo incontro, D’Annunzio riconosce “un capo che si rovescia per ricevere un bacio profondo” nel contorno verde del Lago di Garda; in uno degli ultimi appuntamenti, alcuni versi de La sera fiesolana (1899) sono una lode per il giorno che volge alla sua oscurità: «Laudata sii pel tuo viso di perla, / o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace / l’acqua del cielo». Su questo “buio”, si chiude anche il film, con il quarto, ultimo e breve capitolo dedicato alla morte del poeta, forse, provocata da un avvelenamento nel 1938.
Sarebbe azzardato definire Il cattivo poeta un film sull’opposizione al fascismo, e forse non è davvero nemmeno questo il punto. Perché né Comini, né D’Annunzio rivendicano una netta posizione di dissenso – per quanto sia “disobbedienza” il titolo del terzo capitolo –, il primo incapace di frenare le azioni violente e insensate degli squadristi a lui sottoposti, il secondo rinchiuso in una strana forma di “malinconia patologica” che lo porta a dar la caccia ai topi all’interno del Vittoriale. Il vero sentimento antifascista è quello generato indirettamente dalle immagini che investono lo spettatore: i manifesti nelle strade; le gigantesche “teste” in bronzo; la dinamica dei gesti; le “sudicie camicie nere”. Ancora, la paura negli occhi del padre di Comini, quando si accorge che il fondo della bottiglia ha cerchiato di vino il volto di Mussolini sul giornale; il rumore elettrico dei cavi utilizzati per le torture; le gambe di Lina (Lidiya Liberman) appesa al soffitto. Il fascismo è stato questo, e oggi non dev’essere che un fastidio viscerale e persistente: il potere delle immagini redime, a volte, più del linguaggio.
Riferimenti bibliografici
R. Festorazzi, D’Annunzio e la piovra fascista. Spionaggi al Vittoriale nella testimonianza del federale di Brescia, Il minotauro, Roma 2005.
G.B. Guerri, D’Annunzio. L’amante guerriero, Mondadori, Milano 2008.
Id., Disobbedisco: cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Mondadori, Milano 2019.
Il cattivo poeta. Regia: Gianluca Jodice; sceneggiatura: Gianluca Jodice; fotografia: Daniele Ciprì; montaggio: Simona Paggi; musiche: Michele Braga; interpreti: Sergio Castellitto, Francesco Patanè, Tommaso Ragno, Clotilde Courau, Fausto Russo Alesi, Massimiliano Rossi, Elena Bucci, Lidiya Liberman, Janina Rudenska, Lino Musella, Paolo Graziosi, Antonio Piovanelli, Marcello Romolo, Pier Giorgio Bellocchio; produzione: Ascent Film, Bathysphere Productions, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, Francia; durata: 106’.