Pubblicare un libro sulla fotografia con un quarto di secolo di ritardo significa costringere i lettori digitali a confrontarsi con un passato analogico. Gli acquirenti giovani sono avvisati: il volume Le baiser de Judas è stato pubblicato in francese nel 1996, quando il fotografo e teorico catalano Joan Fontcuberta – già noto all’epoca per mostre come Herbarium o Fauna (clamorosi esempi di quello che oggi chiamiamo fake) – era direttore artistico del festival Rencontres internationales de la photographie di Arles. 1996 – come ci ricorda Michele Smargiassi (l’autore di Un’autentica bugia, altro libro sui rapporti fotografia/verità) nella presentazione – significa cinque anni prima che il cellulare si trasformasse in fotocamera, otto anni prima di Facebook, quattordici prima di Instagram; insomma un mondo in cui la condivisione delle immagini non passava per la rete. D’altra parte nel 1996 erano già morti i tre “re magi” a cui Fontcuberta chiede il dono dell’epifania: il semiologo Roland Barthes (†1980), lo scrittore Jorge Luis Borges (†1986), il filosofo Vilém Flusser (†1991); un terzetto eterogeneo accomunato da una visione “vampiresca” utile a sondare le pratiche artistiche (fotografia compresa) nell’epoca della post-verità. Perché questo è l’assunto fin dagli anni ottanta: «La fotografia è una finzione che si presenta come veritiera. A dispetto di ciò che ci hanno inculcato, a dispetto di ciò che siamo soliti pensare, la fotografia mente sempre, mente per istinto, mente perché la sua natura non le permette di fare diversamente» (Fontcuberta 2022, p. 23).

Un esempio di menzogna raccontato dal nostro è costituito dal reportage di National Geographic (agosto 1972) intitolato “Stone age men of the Philippines”, su una pretesa tribù primitiva che si scoprì poi (ma solo nel 1986) inventata di sana pianta da un antropologo in combutta col dittatore Marcos (per tirar fuori la bella storia di un’agenzia governativa dedicata alla protezione delle minoranze etniche): l’immagine documenta obiettivamente una realtà che però è essa stessa “fabbricata” nel senso di Goffman. Questa vicenda archetipica ha avuto infinite varianti, compreso un esperimento di Serge Daney raccontato a pag. 125, che gettano il sospetto su tutte le immagini tecniche e non solo la fotografia: la recente scomparsa dello scrittore Ron Goulart, autore del romanzo Capricorn One, ci ricorda che lo sbarco sulla Luna è da alcuni considerato una messinscena mediatica; d’altro canto, se qualcosa il cinema ha insegnato alla politica, è che tutto può essere finzionalizzato se si ha il budget adeguato.

Oltre alla menzogna convalidata dalle immagini c’è la manipolazione effettiva delle fotografie, che già dall’epoca del pittorialismo ottocentesco s’è concentrata sul fotomontaggio. «Secondo lo standard utilizzato, ci sono diversi tipi di fotomontaggio: sovrimpressione, stratificazione di negativi, collage, ecc., fino a giungere all’integrazione della tecnologia digitale, che non inventa niente, ma che rende tutto più facile e veloce» (ivi, p. 123). Ma quando comincia questa strana cosa che chiamiamo – trasformando un aggettivo del lessico informatico in un sostantivo quasi sociologico – “il” Digitale? Fontcuberta ci dà molti esempi degli anni novanta, che quindi erano novità all’epoca della redazione dei saggi: l’artista giapponese Yasumasa Morimura, specializzato nella sostituzione del proprio volto asiatico ai personaggi di opere pittoriche occidentali (Velázquez, Manet, Van Gogh ecc.); l’artista/teorico Warren Neidich (autore fra l’altro del libro Blow up: photography, cinema and the brain) che s’inserisce come “artista sconosciuto” nelle foto di gruppo di varie avanguardie (dai futuristi alla factory di Warhol); e poi ancora Matthias Wähner, che per Fontcuberta anticipa gli effetti dell’intervento sulla memoria visuale che divennero popolari con il film Forrest Gump (ma in verità già con Zelig di Woody Allen). Alla categoria “dissoluzione dell’identità” appartengono i fictitious portraits di Keith Cottingham, primi piani iperrealistici ottenuti attraverso procedure di elaborazione grafica computerizzata: quindi già non più fotografia bensì «riproduzione artificiale ma assolutamente realistica, un montaggio senza giunture, un collage più mentale che fisico» (ivi, p. 51).

Dalla mani-polazione all’info-polazione, dal pittorialismo argentico (il Peach Robinson decostruito da Magritte) al neopittorialismo digitale, quello che è in gioco è la riconoscibilità del trucco oppure l’occultamento del lavoro di (pre-/post-) produzione. Per restare ad esempi datati 1996, possiamo citare due opere presenti nel volume di Charlotte Cotton La fotografia come arte contemporanea (nuova edizione ampliata, Einaudi 2021): l’immaginifica composizione di Mori Mariko Burning desire, che sembra la pubblicità di un film ad effetti speciali piuttosto kitsch;  e il perturbante tableau vivant di Wendy McMurdo Helen, backstage, Merlin Theatre (the glance), in cui le ennesime gemelline della linea Arbus/Kubrick sono “in realtà” (rivelazione che deve arrivare dal metatesto critico, cioè dal commento di Cotton) la ripetizione in Photoshop della stessa bambina.

Ce lo ha spiegato Byung-Chul Han (Nello sciame) mettendo in parallelo crisi della rappresentazione iconica e crisi della rappresentanza politica: se la fotografia analogica poteva essere intesa come “emanazione del referente” (ma c’è dell’animismo nella terminologia di Barthes), la fotografia digitale è innanzitutto emanazione della potenza di calcolo; se dunque nella foto barthesianamente intesa la pipa è sempre una pipa, l’immagine informatica ripristina il motto Ceci n’est pas une pipe. Eppure, non è nemmeno così: laddove il Digitale si assume l’impegno di essere una metatecnologia che è in grado di fare di più (e di nuovo) ma anche di fare lo stesso (cioè di rifare il vecchio), è evidente a noi tutti fotografi da cellulare che il grado zero dell’immagine numerica è ancora un visibile che produciamo e veicoliamo come emanazione del referente (esempio lampante: il selfie).

Dal tutto-vero al tutto-finto, con in mezzo l’infinita varietà delle percentuali d’intervento sui pixel, la fotografia è diventata come il cinema: i critici continuano ad esaltare il realismo con o senza aggettivi, il pubblico continua a premiare gli effetti speciali come vero circuito della performance artistica. Se il bacio di Giuda è un ossimoro, lo è a pari titolo dello “stile documentario” teorizzato da Walker Evans: non è un caso che proprio i documentary modes siano la frontiera dell’intervento digitale praticato da autori come Pedro Meyer, di cui Fontcuberta discute l’opera Verdades y ficciones e per il quale conia l’ossimoro “impronta digitale”.

Passati 26 anni (il tempo di una generazione) dalla prima pubblicazione del libro, c’è da chiedersi come mai i nativi digitali siano ancora tanto ingenui – soprattutto sulla rete – anche rispetto ai morituri digitali. Ma forse nemmeno i “re magi” sono in grado di fornirci una risposta soddisfacente. Roland Barthes diceva che la lingua è fascista perché ci costringe alle frasi fatte, e solo la letteratura può funzionare da trappola per topoi (i “luoghi comuni” della retorica); Vilém Flusser diceva che la macchina fotografica è un apparato costrittivo tanto quanto il sistema sociale, e dunque l’unica rivoluzione è la ribellione agli automatismi delle fotocamere, la sovversione dei codici software/hardware (com’è difficile sbagliare una foto! Bisogna mettersi d’impegno per produrre un “fotosgramma”!). Ma Jorge Luis Borges, costruttore di finzioni che si biforcano, viene messo in esergo da Fontcuberta con una frase definitivamente preoccupante: «Accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che niente è reale”. L’angoscia postmoderna è servita.

Joan Fontcuberta, Il bacio di Giuda. Fotografia e verità, Mimesis, Milano-Udine 2022.

Share