Simulation (worlds) di David O’Really fa parte dei filtri di realtà aumentata a disposizione su Instagram, ma il suo modus operandi non consiste semplicemente nella manipolazione del volto del proprio utente: questi si trova infatti trasformato in un feto fluttuante nel liquido amniotico e poi, con un semplice swipe, nel proprio cadavere incastonato in una bara. Non posso approfondire i risvolti dell’opera di O’Really (che è un pluripremiato creatore di animazioni, videogiochi, installazioni etc.). Mi preme sottolineare come nell’effetto di shock che il filtro produce un ruolo fondamentale sia giocato dallo spettacolo del volto dell’utente, dalle sue configurazioni, dalle sue trasformazioni e, in particolare, l’inquietante ibrido tra adulto e neonato. Le differenti rappresentazioni del volto del bambino e dell’infante nei media contemporanei sono al centro del corposo volume I volti dell’infanzia nelle culture audiovisive pubblicato da Bruno Surace per Mimesis.
Il volume si inserisce nell’ampio progetto ERC Facets («Face Aesthetics in Contemporary E-Technological Societies») diretto da Massimo Leone, che introduce infatti il volume di Surace. Coerentemente con la prospettiva del progetto, anche l’approccio di Surace ai volti infantili possiede un taglio semiotico e culturologico, e legge il volto infantile quale dispositivo (memoriale, retorico, sociologico, etc.); l’autore spazia quindi tra mediologia e visual studies in modo molto libero: l’attenzione agli oggetti è infatti preponderante, e i metodi di analisi convocati sono sempre al servizio di una comprensione approfondita dei fenomeni esaminati.
E i fenomeni sono parecchi, dato l’intento di tracciare un vero e proprio atlante dei volti infantili nella cultura mediale contemporanea assemblato con vorace pulsione collezionistica: dall’universo fotografico di Anne Geddes ai numerosi utilizzi pubblicitari dei volti infantili; dalle configurazioni nel cinema dell’orrore (la Samara di Ring, i bambini tutti uguali de Il villaggio dei dannati) a quelle proprie dei bambini prodigio (da Shirley Temple in poi); dagli ibridi cinetelevisivi bambino – adulto (i vari «Baby» Boss, Groot, etc., i Garbage Pale Kids, i Teletubbies) ai visi infantili prodotti artificialmente dalla malattia (Sammy Basso), feticisticamente mediante il silicone (le Reborn Dolls), mostruosamente nel cinema (il cortometraggio El automata di Alejandro Perez, ma mi verrebbe da citare il feto realizzato da David Lynch per Eraserhead); dai bambini social (quelli con il labbro leporino da curare grazie a Fondazione Operation Smile, la comédie (post-)humaine dei piccoli Ferragnez, il volto-slime dei Me contro te) alle riformattazioni dei volti adulti in senso infantile (FaceApp, le attrici adulte che recitano da teens nel porno, le applicazioni dello kawaii).
Nelle conclusioni, Surace sottolinea come le differenti questioni affrontate a partire dai vari esempi si possano inquadrare all’interno di una decostruzione dell’ageism in quanto prospettiva culturale e ideologica di una generazione su altre (sia in senso paidocratico che gerontocratico); innestare la prospettiva di FACETS sulle tematiche proprie dei Childood Studies (Cook 2020) significa dunque fare quello che la semiotica ha da subito dimostrato di saper fare molto bene: costringere i complessi mitologici e ideologici a uscire dall’implicito per rivelare i propri caratteri di conformazione, le proprie dinamiche di riproduzione e i propri strumenti di espressione.
La vasta ricognizione di Surace si presta a numerose osservazioni: mi limito a indicarne due. La prima osservazione è di ordine metodologico. Surace sembra relativamente preoccupato dall’individuare il punto di distacco del suo oggetto di studio da una prospettiva «naturalistica» (si pensi al Kindchenschema presentato da Lorenz nel 1943: il set di caratteristiche formali dell’infante per lo più concentrate sul volto e tale da implicare un determinismo biologico nel riconoscimento e nella cura del cucciolo da parte dell’adulto) a una prospettiva «culturalista» (propria degli studi anche semiotici sulla fisiognomica, il ritratto, la maschera etc.). A me sembra che questa questione sia secondaria e soprattutto faccia schermo rispetto a un altro nodo metodologico: si può definire il volto del bambino solo in base alle sue caratteristiche morfologiche senza implicare quelle narrative? A mio avviso no, e credo che Surace sia d’accordo con me dato che i racconti che coinvolgono i volti dei bambini sono al centro della sua attenzione in molti casi. Ma allora: che relazione c’è tra volto e racconto? Il volto è già una «matrice» di racconti, una sineddoche di una storia o una tipologia di storie, o il momento saliente di uno sviluppo narrativo? Il punto mi sembra interessante anche per un’altra ragione: forse è proprio il modo in cui i volti dei bambini si connettono a un tipo specifico di racconto a determinare la storicizzazione e la culturalizzazione del volto dell’infante: lo dimostrano bene credo le vicende dei bambini attori analizzati da Surace; ma lo dimostra in chiave più ampia e con riferimento al cinema italiano la voce «Bambino» del Lessico del cinema italiano (Morreale 2014).
La mia seconda osservazione si sposta dal metodo al contenuto. Come è noto il termine “in-fanzia” rimanda alla incapacità del neonato di maneggiare la lingua e quindi di produrre enunciati linguistici. Un pensiero sull’infanzia diviene quindi anche (secondo la linea sviluppata da Agamben, 2001) un tentativo di misurarsi con i limiti del linguaggio all’interno di una esperienza del linguaggio del tutto esteriore ad esso. Non posso ovviamente sviluppare questo punto, ma mi limito a mettere in luce una conseguenza a mio avviso rilevante per il discorso che svolge Surace: il lavoro culturale sul volto dell’infante (volto che è anche luogo di produzione degli enunciati linguistici) rivela alcuni aspetti fondamentali su come i diversi ambienti sociali, culturali, antropologici intendono i processi di socializzazione, ossia l’ammissione del neonato alle differenti forme della vita sociale. Le modalità in altri termini mediante le quali il bambino perde il suo aspetto di alterità (con tutte le implicazioni di mistero, smarrimento, impenetrabilità, fusionalità de-individualizzante con altri infanti che Surace ben descrive) per divenire un piccolo attore sociale.
Il panorama tracciato da Surace apre sotto questo aspetto a una ipotesi interessante: i processi di socializzazione dell’infante stanno passando all’interno degli habitat mediali contemporanei dal dominio del registro verbale-sonoro a quello dei differenti registri visuali. Non è la capacità di gestire la parola (dal vagito fino al discorso articolato) a trasformare l’infante in attore sociale, ma piuttosto la capacità di mostrarsi e di guardare, di mascherarsi e di smascherare, di atteggiarsi e di manipolare immagini. L’immagine è insomma il nuovo territorio in cui si diventa adulti; o meglio; in cui si producono ibridi di bambini adulti in un passaggio prolungato dall’immagine del feto a quella del cadavere – come l’applicazione di O’Really richiamata all’inizio mostra brillantemente.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Nuova edizione accresciuta, Einaudi, Torino 2001.
D.T. Cook (ed.), The Sage Encyclopedia of Children and Childhood studies, Sage, Thousand Oaks – London 2020.
E. Morreale, Bambino, in R. De Gaetano, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forma di vita, vol.1, Mimesis, Milano 2014.
I volti dell’infanzia nelle culture audiovisive. Cinema, immagini, nuovi media di Bruno Surace, Mimesis, Torino 2022.