I miei studi su Paolo Volponi sono iniziati per indagare le ragioni che spinsero Italo Calvino a criticare il suo primo romanzo o, meglio, le ragioni per cui Volponi scelse come protagonista una tipologia di personaggio avversata da Calvino. In effetti, in una recensione, pubblicata il 5 maggio del 1962 nella rivista “L’illustrazione italiana”, Calvino criticò Memoriale perché, sosteneva, «il rappresentare personaggi malati di mente è cosa da non raccomandare a chi scrive romanzi; già Pavese ci ammoniva di questo ogni volta che gli capitava di giudicare una narrazione con il protagonista mentecatto: quando si tratta di matti tutto è possibile; creare un’atmosfera suggestiva con la pazzia è troppo presto fatto, così come è troppo facile dare significati metafisici alle manie e alle allucinazioni» (Calvino 1999, p. 1275). Per Calvino l’unica cosa che salvava Memoriale era «un ribollire di fondo da “uomo del sottosuolo” […] il riscatto di quanto in Volponi è referto d’un caso psichiatrico o psico-sociale» (ibidem).
Decisi così di dedicare la mia tesi di dottorato ai personaggi «malati di mente» di Volponi. Trasferitomi a Parigi, durante il mio stage all’Auditorium del Museo del Louvre sotto la direzione di Matthias Waschek, scoprii la storicità del concetto di follia, i suoi legami con la storia dell’arte e con la scrittura, grazie soprattutto agli studi di Michel Foucault sulla Storia della follia nell’età classica (1961), quelli di Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl su Saturno e la melanconia (1964), quelli di Julia Kristeva e Jean-Michel Ribetter sulla Folle vérité. Vérité et vraisemblance du texte psychotique (1979). Le analisi del contesto storico-culturale degli anni sessanta e settanta, in particolare per ciò che riguarda la diffusione della psicoanalisi in Italia e la nascita della psichiatria sociale, mi consentirono di dimostrare che la visione della cosiddetta malattia mentale presente nei romanzi di Volponi era in linea con le più avanzate acquisizioni scientifiche. In effetti, così come sociologi e psichiatri sociali a lui contemporanei analizzarono il processo di psichiatrizzazione che si attuava nei manicomi, nei suoi principali romanzi Volponi indagò quello che ho chiamato il processo di mattizzazione a cui sono sottoposti coloro che deviano dalla norma: le parabole di Albino Saluggia, Anteo Crocioni, Gerolamo Aspri, Gaspare Subissoni e Bruto Sarracini, pur nella loro eterogeneità, sono accomunate, oltre che dal loro statuto di nevrotici, da una posizione antagonistica nei confronti della società.
Volponi si considerava «un nevrotico in via di guarigione, ottenuta attraverso varie operazioni di autoanalisi. La lettura delle opere di Freud, il confronto con la letteratura e la vita, il cercare di aumentare il più possibile il mio spazio psicologico, oltre che storico e culturale, i miei libri medesimi, sono tutte le parti di questa autoanalisi» (Toscani 1974, p. 269). Ora consideriamo che per Volponi, stando a quanto dichiarato nel saggio Le difficoltà del romanzo,
il romanzo […] rifiuta un codice, la rigidità di una norma, dovendo essere sempre insieme, sopra, in modo scientifico, quella realtà che fugge come una palla di fuoco. Cioè non può più accettare, per interpretare la realtà sociale, gli schemi convenzionali e autoritari, rifarsi alle misure di quella bilancia che ha sempre oscillato fra due logiche di successo, quella di tipo causale, positivistica, che ha prodotto romanzi naturalistici, e quella basata sull’imputazione, in cui la deviazione dalla norma è colpita, condannata, in ossequio a una logica repressiva non liberante, non costruttiva (Volponi 2002, p. 1028).
La grandezza di Volponi risiede nella capacità di coniugare questo doppio sguardo, sulla propria soggettività e sulla società, nell’analisi della realtà che si fa problematica e nell’elaborazione di una scrittura che, specialmente in Corporale e Le mosche del capitale, si apre a molteplici letture. Ciò consente di leggere in filigrana, nelle vicende e soprattutto nelle visioni dei contadini Albino Saluggia e Anteo Crocioni, il riflesso della trasformazione antropologica avvenuta negli anni cinquanta quando si compì il passaggio storico dell’Italia da un’economia agricola a una industriale avanzata, con la conseguente scomparsa di un immaginario millenario e la diffusione a livello di massa di processi di alienazione. Così come nella scrittura schizomorfa di Corporale si riflette la psicosi per l’apocalisse atomica; nella duplice vicenda dell’anarchico Gaspare Subissoni e dell’indipendentista anacronistico Oddo Oddi l’avvio della strategia della tensione in una nazione in cui l’unificazione ha comportato la deportazione di manodopera dal Sud al Nord e dalla provincia alla capitale; nelle ambizioni frustrate di Bruto Sarracini il fallimento dell’utopia del nuovo Rinascimento a trazione industriale che era stata di Olivetti, concomitante con l’avvento del post-fordismo e il trionfo della finanziarizzazione dell’economia.
Forse più di ogni altro narratore del secondo Novecento, Volponi è riuscito a interpretare fenomeni di breve e di lunga durata in una prosa che tende a superare la barriera del naturalismo e allo stesso tempo si mantiene in dialogo con la tradizione: l’utopia umanistica dell’homo faber in contrasto con la lotta di classe; il realismo creaturale francescano in contrasto con lo scetticismo leopardiano e con la sua visione vulcanica della natura; l’autoanalisi freudiana applicata al soggetto e combinata con la visione critica del cosiddetto malato mentale. Volponi è riuscito a reinterpretare in chiave moderna la tradizione del grande romanzo, consegnandoci con Corporale e Le mosche del capitale due opere aperte che non dissimulano il contesto storico (lo spettro della guerra atomica nel primo; il postfordismo e la svolta manageriale del capitalismo italiano nel secondo), come capitò nelle opere aperte del primo Novecento, ma lo indagano mettendolo al centro della narrazione, tanto da condizionarne le strutture e i personaggi.
Non possiamo sapere cosa sarebbe capitato all’opera di Pavese se non avesse relegato l’irrazionalità alla sfera del ricordo e del mito, né quali romanzi avrebbe scritto Calvino se avesse osato la misura del grande romanzo, invece di mantenersi nei confini del racconto lungo, ma sappiamo quello che è capitato a Volponi: partendo dalla rivoluzione copernicana della psicoanalisi, da cui era partito anche Svevo, ha trasformato la figura dell’inetto, che era un riflesso della crisi dell’individuo all’inizio del Novecento, nella figura dell’insubordinato, che era un riflesso della crisi della normatività moderna, indagando la dialettica tra individuo e società, tra la struttura economica capitalista e le sovrastrutture culturali. I significati delle manie messe in scena da Volponi non sono metafisici, ma materialistici: Saluggia finisce, di eccesso in eccesso, per partecipare a uno sciopero; in uno dei suoi furori, in una carrozza ferroviaria, Subissoni denuncia il colonialismo delle regioni italiane settentrionali nei confronti di quelle meridionali. Volponi non crea un’atmosfera suggestiva con la pazzia ma, al contrario, denuncia la tendenza della classe dominante a suggestionare le persone, specie quelle subordinate: sta a dimostrarlo la defenestrazione dell’anarchico Pinelli, narrata di riflesso, ovvero guardando un televisore, in una scena di Sipario ducale.
Riferimenti bibliografici
I. Calvino, Memoriale di Paolo Volponi, in Saggi, vol. I, Mondadori, Milano 1999.
C. Toscani, a cura di, Incontro con Paolo Volponi, in “Il ragguaglio librario”, luglio-agosto 1974.
P. Volponi, La macchina mondiale, in Romanzi e prose, vol. I, Einaudi, Torino 2002.
Id., Le difficoltà del romanzo, in Romanzi e prose, vol. I, Torino, Einaudi, 2002.