Un corpo può, come gesto politico, occupare spazio, rendersi visibile, può urlare le ferite e performare il dolore, sussurrare la vulnerabilità così come la rabbia, può esibirsi al ritmo di desideri indicibili, ancorarsi a terra e mare per rivendicare le proprie trasgressioni. Il corpo, allora, come presa sul mondo (de Beauvoir 1961), si fa membrana di mediazione tra la dimensione intima e quella pubblica, un ponte tra interno ed esterno che diventa luogo di negoziazione della propria soggettività. Ma, arrivando al punto, un corpo, come lo è quello filmico di Houria, può anche attraversare fluidamente queste strade per approdare ad una dimensione che sembra sradicarsi dalla carnalità del quotidiano, in una dislocazione ascetica che apre una terza via tra intimo e collettivo.
Lyna Khoudri presta il suo corpo a Houria, giovane ballerina algerina protagonista dell’ultimo film di Mounia Meddour. La seguiamo, all’inizio del racconto, nei movimenti sinuosi e decisi, nelle linee spigolose del suo volto fermo, capiamo subito che quella fatica trasuda anche un grande desiderio. Mentre lo spettacolo del Lago dei cigni si avvicina, in un montaggio alternato che contrappone spazi differenti, vediamo Houria dividersi tra due tipi di palcoscenico: dal teatro dominato dalla luce e dal femminile all’arena buia e maschile in cui avvengono i combattimenti clandestini tra arieti, dunque dalla leggiadria delle ragazze-cigno agli scontri di uomini che urlano e che mimano un’animalità violenta.
Houria, così, si ritrova fuori posto, come fuori posto sembrano ancora essere le donne algerine negli spazi pubblici, dominati dalle brutali repressioni di una società misogina. Proprio quest’atto di sconfinamento – una trasgressione anche etica dal momento che la giovane donna si reca in questi spazi per scommettere sui combattimenti di animali, sperando di poter comprare con i soldi della vincita una macchina alla madre – si concluderà con l’aggressione da parte di un ex militante islamista.
Qui la vita di Houria si interrompe. Si frattura il tempo, il sogno, la voce. Nonostante il nesso fin troppo didascalico per cui all’uomo che le urla di stare zitta, pochi attimi prima di scaraventarla dalle scale, segue l’effettivo mutismo della protagonista come risultato di uno choc post-traumatico, la parabola che il film costruisce a partire da questa rottura ha una specificità estetica e politico-filosofica del tutto particolare.
Dopo i primi momenti di pungente annichilimento, in cui esplode con toni lirici e toccanti tutta la rabbia e il disorientamento della protagonista, pian piano assistiamo ad un’ascesi in cui non solo cambia la percezione che Houria ha del suo corpo come strumento politico, ma vi è una sorta di estraneità estatica per cui la giovane donna inizia a muoversi verso una dimensione altra, forse a tratti insondabile, in cui il dolore viene sublimato in un altruismo salvifico.
Vi è uno scarto tra il trauma dell’aggressione, il suo portato luttuoso, e l’unione di Houria al gruppo di donne mute accomunate da quelle ferite che riecheggiano gli squarci aperti dalla storia algerina. Questo scarto passa per un’accettazione quasi mistica della perdita, della voce così come di un futuro da ballerina professionista. La protagonista asseconda presto una nuova vocazione, esibendo una fermezza interiore che la proietta in una posizione distaccata dalla comunità femminile appena trovata. Questo movimento inizia con la scena della gita al giardino, un’immersione in un eden popolato dai sorrisi delle donne vestite da ninfe della foresta che fonde immaginario religioso e mitico, e ribadisce ancora quel senso di dislocazione da una dimensione terrena.
Qui Houria viene letteralmente incoronata, un rito di iniziazione che la elegge guida spirituale del gruppo, il cui fine ultimo, scevro da dogmi e credenze, è la pura espressione di sé, della propria identità, una riscoperta e liberazione del proprio corpo attraverso la danza. Fortemente catartico è anche il momento che chiude la sequenza, in cui Halima, che ha perso entrambi i figli a causa di un’esplosione, consegna simbolicamente il suo dolore a una statua di donna, nuda e dalle forme armoniose, che un eccesso di interpretazione potrebbe associare alla stessa Houria. D’altronde l’atto interpretativo iperbolico diventa lecito di fronte a una struttura del racconto che procede più per picchi di intensità (Bertetto 2016), a volte irrelati, caratterizzati sia da una causalità debole ma anche da un’attrattività seducente in grado di far scaturire una forte sensazione nella spettatrice.
Dunque, quando successivamente Houria ritorna a danzare, tra cielo e mare, sulla terrazza e poi con i piedi immersi nell’acqua sulla spiaggia, il suo sguardo è differente, i suoi movimenti hanno subito una trasformazione, non solo per il passaggio dalla danza classica a quella contemporanea, ma ogni gesto sembra ora votato alla ricerca di un nuovo linguaggio. Questo cambiamento sfuma quasi un passaggio tra Odette e Odile, un doppio che non ha però connotazione negative, dal momento che Houria rimane un personaggio positivo dall’inizio alla fine del film. Eppure di quel doppio permane una certa alienazione, percepiamo poco dell’interiorità della protagonista, se non attraverso le tracce che segna il suo corpo.
Se ancoriamo la traiettoria di Houria a un contesto storico e sociale, questo dislocamento identitario è forse vicino a quell’idea di «estraneità al domestico» (Bhabha 2001), in cui la perdita di un’origine porta ad una ri-scrittura della propria storia, del proprio posto nel mondo. Una storia di morte e rinascita allora, come d’altronde viene esplicitato dalle parole dell’amica che incoraggia la protagonista: “Potresti essere morta nella tua vecchia vita, ma non è la fine di un viaggio, è solo una fase, l’inizio di una nuova vita”.
Questa rinascita simbolica, così, getta Houria in una zona trascendentale in cui tessere le trame di un nuovo sentire, in cui abbracciare il progetto di una lotta comune femminile, nella speranza che il trauma si dissolva nell’incontro con l’Altra. Se da un lato questo rientra chiaramente in una progettualità politica che riconosce nell’amicizia femminile, più che nella sorellanza, «il modello più forte e più produttivo per comprendere le relazione fra donne oggi» (Pravadelli 2017, p. 33), è pur vero che questo racconto filmico eccede in una rappresentazione fortemente eroica della donna.
Ripensando a Papicha (2019), il precedente film di Meddour, Nedjma (interpretata sempre da Lyna Khoudri) e le sue amiche incarnano alcune contraddizioni, sono spesso in balia di esplosioni di rabbia, comprensibili di fronte ad atti di violenza disumani, e in cui la santità lascia il posto ad atti di trasgressione quotidiana. Se lì le vicende risuonavano all’interno di un contesto storico nitido come l’ascesa del fondamentalismo religioso negli anni novanta in Algeria, in Houria lo sfondo diventa il vissuto traumatico delle sue protagoniste – basti pensare al terribile racconto della madre, testimone dell’uccisione del marito reo solo di aver fatto guidare una donna. Allora si potrebbe ravvisare un qualche cambiamento nel percepire la storia, nel modo di elaborarla. Partendo proprio da un altrove, intimo e collettivo insieme, in cui prima reinventarsi, per poi poter urlare la propria rabbia e libertà.
Riferimenti bibliografici
P. Bertetto, Il cinema e l’estetica dell’intensità, Mimesis, Milano 2016.
H. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001.
S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1961.
V. Pravadelli, a cura di, Il cinema delle donne contemporaneo. Tra scenari globali e contesti transnazionali, Mimesis, Milano-Udine 2018.
Houria – La voce della libertà. Regia: Mounia Meddour; sceneggiatura: Mounia Meddour; fotografia: Léo Lefèvre; montaggio: Damien Keyeux; musiche: Maxence Dussère , Yasmine Meddour; interpreti: Lyna Khoudri, Rachida Brakni, Amira Hilda Douaouda, Nadia Kaci, Marwan Fares; produzione: The Ink Connection, High Sea Production; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Algeria, Francia; durata: 98′; anno: 2022.