«Che significa “vi è linguaggio?”, che significa “io parlo”?» (Agamben, 2001a, p. X). Questa domanda, attorno a cui ruota l’intera opera – i testi scritti e quelli non scritti – del filosofo Giorgio Agamben, assume, oggi, un’importanza decisiva. Nell’epoca in cui la parola e, con essa, la nostra stessa «natura linguistica ci giunge incontro rovesciata» (Agamben, 2001b, p. 64), incaricata di una straordinaria potenza spettacolare, la ripubblicazione, a distanza di quindici anni dalla prima edizione, del testo Horkos. Il sacramento del linguaggio, ad opera di Quodlibet, permette di ripensare il rapporto che lega, nella cultura occidentale, parola e cosa, uomo e mondo, vita e diritto.

L’analisi dell’esperienza di parola inaugurata dal giuramento – giunta oggi al proprio esaurimento storico e in grado, tuttavia, di mantenere intatta la propria vigenza – delinea un’operazione filosofica radicale: esponendo il funzionamento della macchina onto-teologica occidentale, essa permette, insieme, di cogliere il potere sopravvivente dei suoi resti e di indicare la possibilità politica della sua disattivazione.

La domanda archeologica posta da Agamben – sottratta all’equivoco pregiudiziale che individua nel giuramento uno stadio “magico-religioso” più arcaico, in cui la soglia tra religione e diritto è ricondotta al paradigma dell’ambivalenza e della «primordialità del sacro» (Agamben 2023, p. 25) – si iscrive nel solco di due cogenti interrogativi: che cosa ne va nel giuramento se l’odierna crisi dell’esperienza da esso inaugurata duemila anni fa – come sostiene Paolo Prodi, autore del testo Il sacramento del potere (1992) da cui il volume agambeniano prende le mosse – «mette in questione l’uomo stesso come animale politico?» (ivi, p. 12); quale esperienza del linguaggio è dischiusa dal dirsi del giuramento, dal peculiare istituto che esso configura? Nel punto di contatto tra queste due domande, il giuramento appare come il darsi sacramentale di una parola che fonda, insieme, linguaggio e potere e che, proprio per questo, reclama una nuova interrogazione.

Nel giuramento, parola, potere e vita rivelano l’intreccio attraverso cui l’occidente ha istituito e compreso sé stesso e di cui, tuttavia, molto rimane ancora impensato. “Io giuro” è, infatti, l’affirmatio che àncora la lingua ad un corpo politico (tanto che Licurgo, come ricorda il filosofo, poteva porre il giuramento a fondamento dell’ordine democratico greco, dell’esperienza politica occidentale per eccellenza) e che, più radicalmente, rivela il radicarsi della violenza del potere umano nella struttura stessa del linguaggio (Agamben 2001a, p. XII). Al di là della distinzione o dell’indecidibilità tra religione e diritto a cui il giuramento sembra appartenere, il giuramento è l’esperienza di una parola che – insieme affermazione, invocazione e maledizione – dice l’originaria potenza bene-dicente e male-dicente del linguaggio, l’ordine “arci-trascendentale” sulla cui amministrazione il potere si fonda.

Nell’atto della propria pronuncia, il giuramento giura infatti, innanzitutto, «sul potere significante del linguaggio» (Agamben 2023, p. 48), sulla relazione tra parola e mondo che esso istituisce e di cui Dio stesso – come il filosofo ricorda rileggendo il Legum Allegoriae di Filone – è garante. Se Dio è l’essere i cui logoi sono horkoi, la cui parola è giuramento che «testimonia con assoluta certezza di sé» (ivi, p. 34); se è sul nome di Dio che l’uomo, chiamando gli dèi a testimoni della propria parola, giura la propria credibilità, il linguaggio umano sarà un’infinita e asintotica approssimazione al linguaggio divino, al nome dell’evento del linguaggio. Nel giuramento, la parola – strappata al suo uso comune e resa sacra – trascende ogni contenuto semantico e, trattata come un nome proprio, sancisce e conserva la relazione tra linguaggio e realtà, il phoedus tra parole e cose che vincola parlante e mondo alla parola pronunciata.

La vis del giuramento sarà, dunque, la forza obbligante di una fides – istituto che intrattiene col giuramento una peculiare familiarità – con cui l’uomo consegna, nel medesimo atto, il mondo al proprio potere nominante, e sé stesso – nella prossimità tra giuramento, sacratio e devotio – alla parola. Se l’indagine archeologica sul giuramento confluirà all’interno del monumentale progetto agambeniano Homo Sacer, è perché nell’esposizione dell’uomo alla fedeltà e allo spergiuro, alla verità e alla menzogna – nel promettersi dell’uomo alla lingua – sembra iscriversi, insieme, la possibilità dell’efficacia del linguaggio e del patto politico occidentale.

Questo votarsi dell’uomo – l’animale che può parlare solo dis-appropriandosi la lingua (fino al punto di farne una propria facoltà), che può dire “io” solo occupando il cuore cavo del linguaggio (Agamben 2023, p. 93) – al potere di veridizione del logos che è in questione nel giuramento, sancisce la prima promessa, la prima, «trascendentale sacratio» (ivi, p. 90) in funzione della quale solo è possibile comprendere la sacratio politica.

Il giuramento, sospendendo il carattere denotativo del linguaggio, realizzando «immediatamente la corrispondenza tra parola e cosa» (ivi, p. 67) e tra parlante e parola pronunciata, è esperienza della nominazione che costituisce la struttura performativa del linguaggio e la forma originaria del comando.

Se l’uomo è l’animale in-fante che, non-da-sempre-parlante, è, tuttavia, preso e ab-bandonato al linguaggio; se è su un fondamento negativo – l’umana, assente, voce, il non linguistico – che il linguaggio umano può articolarsi; se, nell’esperienza del giuramento, l’efficacia imperativa della parola sospende ogni asserzione per sancire, nominando e male-dicendo, la relazione o la frattura ontologica su cui ogni denotazione linguistica può stabilire il proprio «nesso esistentivo con le cose» (ivi, p. 76) e l’ambito della propria validità, allo stesso modo, nell’istituto della sacertas, il diritto, applicandosi alla nuda vita che produce disapplicandosi, delinea così lo spazio del proprio esercizio. Svolgendo, nella forma tecnica della maledizione, la forza della parola efficace inaugurata dal giuramento, la legge fonda sulla propria struttura eccepiente (iscritta nell’imperativo “sacer esto”) la propria vigenza e la polis. Nello stato d’eccezione, nella sospensione nominante su cui giuramento e diritto si decidono (di cui la formula delle XII tavole uti lingua nuncupassit, ita ius esto – “come la lingua ha detto, così sia il diritto” – è espressione), il sacramento del linguaggio e il sacramento del potere si installano, senza fondersi, l’uno nell’altro. Nella vita bandita ed esposta dell’homo sacer si incarna la maledizione politica di una parola che, nominando (nomen capere), «invera l’essere» (ivi, p. 76).

Oggi che il linguaggio appare definitivamente abbandonato dal nome di Dio e sideralmente distante da ogni verità onto-teologicamente fondata e che la legge si esercita in una perpetua sospensione, la pura forma a-significante del linguaggio sembra essere tanto più inscalfibile, destinata a un perpetuo interregno. Nella società spettacolare, in cui lo stato d’eccezione diviene la regola, la stessa comunicatività dell’uomo, divenuta autonoma, aliena l’uomo dalla propria “natura linguistica”. Tuttavia, proprio ora che «senza veli guardiamo il linguaggio» (Agamben 2001b, p. 33), che la sua rivelazione appare compiuta, sembra possibile, per la prima volta, fare davvero esperienza della sua assoluta medialità (ivi, p. 66); sembra possibile ritrovare la vocazione, sorgiva e perduta, della filosofia: esporre i limiti del linguaggio fino a dire la fine del suo invincibile potere presupponente (Agamben 2005, p. 34).

Nel momento in cui sembra venire a conclusione l’epoca in cui l’uomo ha fondato la sua verità sul nesso fra Dio e il logos non è infatti escluso – scrive Agamben – che sia possibile scorgere un’altra figura della verità, al di là della corrispondenza obbligata fra parola e cosa. Essa potrà sorgere dalla rottura del vincolo tra legge e promessa, come una nuova fedeltà che «faccia salva», nella parola, «l’infanzia dell’uomo» (Agamben 2022). È questa inaudita possibilità che il filosofo scorge nell’urgenza messianica della parola paolina, nella res amissa dell’esperienza poetica. La poesia è, infatti, quell’esperienza del linguaggio che, vincolando il poeta all’impossibilità di dire “io”, dice una parola che, sospesa tra un suono e un’intenzione di significare, non fonda più nulla – né popolo né legge, né costituzione né discorso – ma chiama, senza posa, la lingua che manca, il popolo che manca – l’a-demia che abita ogni popolo.

L’archeologia, percorrendo il linguaggio come un campo di forze «tese tra l’antropogenesi e il presente» (Agamben 2023, p. 22), conduce a due definizioni inseparabili, al cui incrocio si colloca il giuramento: «L’uomo è l’animale nella cui politica ne va della sua vita di essere vivente»; «l’uomo è il vivente nella cui lingua ne va della sua vita» (ivi, p. 90). Esse rivelano ora, a contatto con due imperativi che non comandano nulla se non la propria urgenza, il compito che l’opera di Agamben, sulle tracce di Walter Benjamin, ci consegna. Produrre il «vero stato d’eccezione», vorrà dire spezzare il rapporto che lega maledizione e vita, legge e linguaggio, operando una «cristallina eliminazione dell’indicibile nel linguaggio». Solo una parola interamente liberata dalla potenza del nome divino e dal fondamento negativo e indicibile su cui esso si articola, solo una politica liberata dalla maledizione (e dalla sua consustanzialità alla legge), potranno inaugurare una «pura e comune potenza di dire, capace di un uso libero e gratuito del tempo e del mondo» (Agamben 2000a, p. 126).

Tra una lingua «sopravvissuta al suo compito teologico» (Agamben 2000b, p. 49) – che Agamben vede baluginare tra le pagine di Robert Walser – e una fede liberata da ogni istanza promissoria e da ogni potere obbligante – la cui figura balena nella lingua in esilio delle lettere paoline, nel dialetto poetico di Andrea Zanzotto –, potrà apparire una nuova esperienza del linguaggio, in cui sia sospesa la performatività sempre in atto della fondazione, lo stato d’eccezione che fa di ogni dire uno ius dicere, di ogni legge ciò che proclama (in-dice) la propria forza nominante.

Una parola sopra-veniente eppure sempre a-venire – che «quasi infante, pur nel suo dirsi», «lontana da ogni trono» (Zanzotto 1973, p. 543), compia tempo e linguaggio senza raggelarli in un evento – potrà, come una grazia, interrompere l’incessante apertura a cui – nella politica e nella lingua – siamo, come nella parabola kafkiana, consegnati.

Se nel giuramento l’intera lingua è trattata come un nome, se sulla “macchina del linguaggio” si è potuto istituire il sacramento del potere occidentale, un linguaggio che avrà de-posto ogni pretesa denominante, trasformando ogni nome in pseudonimo e ogni verbo in azione che riposa, supina, in sé stessa, annuncia l’ultimissimo experimentum linguae. Rispondendo, ancora, al nome “infanzia”, al nome che non può che mancare – il nome per il linguaggio e per il tempo della sua fine –, esso con-voca, al di là di ogni presupposto e di ogni comune prigionia nel linguaggio, la comunità che viene.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Categorie Italiane, Quodlibet, Macerata 2021.
Id., Homo sacer. Edizione integrale 1995-2015, Quodlibet, Macerata 2018.
Id., Infanzia e storia, Einaudi, Torino 2001a.
Id., Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000a.
Id., La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001b.
Id., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri pozza, Vicenza 2005.
Id., La verità e il nome di Dio, in “Una voce. Rubrica di Giorgio Agamben”, 5 dicembre 2022.
C. Salzani, Il linguaggio è il sovrano: Agamben e la politica del linguaggio, in “Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio”, 1 (2015), pp. 268-280.
A. Zanzotto, Poesie, Milano 1973.

Giorgio Agamben, Horkos. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Quodlibet, Macerata 2023.

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