"Homo homini lupus" (Berta, 2011).

Ha vinto Hobbes. Come scrive all’inizio del De Cive (1642) «Vere dictum est […] homo homini lupus»: il nemico mortale dell’animale umano non è il virus, è l’altro umano. Il nemico è il prossimo. Ci dicono, ci esortano e fra poco (scrivo il 19 marzo) probabilmente ci obbligheranno a rimanere chiusi in casa, in “famiglia”, ma è evidente che se si potesse l’imperativo non sarebbe questo, bensì il definitivo “state da soli”. Solo una volta che ognuno potrà starsene isolato e senza contatti con altri pericolosi corpi umani, solo allora finalmente il rischio del contagio potrà essere debellato del tutto.

Il pericolo è l’altro umano, qualunque altro umano. Finora ci era stato detto che il pericolo era lo straniero, in particolare il profugo africano che portava con sé le malattie, poi invece il pericolo veniva dalla Cina (ancora pochi giorni fa il presidente degli Stati Uniti Donald Trump parlava del “Chinese Virus,” perché – la sua logica sarà elementare ma fila – “It comes from China”), oggi il pericolo è qui, a casa nostra: il pericolo è genericamente ogni altro essere umano. Che non sia una esagerazione basta prestare attenzione ai nostri gesti quotidiani, alla preoccupazione che ci prende quando per strada (usciamo solo per fare la spesa, stiamo tranquilli) incrociamo un altro essere umano: meglio stare lontani.

E perché l’umano è pericoloso? Perché è infetto o potenzialmente infetto. Quello che più colpisce di questo imperativo (che da un punto di vista epidemiologico è inattaccabile, ma non è di questo che stiamo discutendo) è appunto che non si fa distinzione fra chi è infetto e chi non lo è. Nel dubbio, siamo tutti portatori dell’infezione, e quindi dobbiamo stare tutti in quarantena. Quindi, appunto, homo homini lupus. Ma chi è, propriamente, l’altro, cioè il nostro prossimo?

Siccome questa domanda riguarda la natura umana, è il caso di tornare ad Aristotele, alla celebre definizione dell’animale umano come politikòn zôon contenuta nella Politica:

L’umano animale è cittadino più di ogni ape o di qualsiasi animale che fa vita di gruppo. […] Chi non è capace di entrare in comunanza-comunicazione o chi a causa della sua autosufficienza non ha bisogno di nulla, costui non è parte della città e perciò è o animale o dio. In tutti gli uomini si trova la tendenza naturale a questo tipo di comunanza-comunicazione (Lo Piparo 2014, pp. 29-30).

L’animale umano è umano perché è in relazione – “comunanza-comunicazione” – con altri animali umani. Diciamolo meglio: non è che l’umano talvolta è in relazione con altri umani, Homo sapiens significa relazione umana. Viene prima questa relazione e poi i singoli esseri umani. Prima c’è l’umanità come “comunanza-comunicazione” e poi vengono i singoli esseri umani. Questa condizione non è contingente, al contrario, è necessaria, è una condizione specie-specifica (cioè definisce in senso biologico la specie Homo sapiens). Un umano che o non fosse capace di stare in rapporto con altri umani oppure che non ne avesse bisogno non sarebbe più propriamente umano: con la consueta chiarezza Aristotele ci ricorda che sarebbe o un animale – ad esempio un solitario orso – oppure un intangibile dio. Perché essere dio che cosa significa se non essere qualcuno o qualcosa che non ha bisogno di nulla (forse per questa ragione per gli antichi egizi il gatto era di natura divina, cioè doppiamente inumano)?

Si capisce allora che la posta in gioco, quando ci viene detto (con argomenti medici che non sono in discussione, meglio ribadirlo ancora una volta) di rimanere il più possibile isolati dagli altri esseri umani (qualche giorno fa Matt Hancock, UK Health Secretary, ha detto in un’intervista che il governo inglese per salvaguardare la loro salute auspica uno spontaneo “self-isolating” per le persone sopra i settanta anni, un isolamento che possibilmente duri almeno quattro mesi), la posta in gioco dicevamo è di smettere di essere umani.

Rispondiamo subito all’obiezione più ovvia: questa è una esagerazione, si tratta di contenere una straordinaria emergenza sanitaria, quando questa emergenza sarà passata nessuno chiederà più simili sacrifici. L’obiezione è giusta, ma non sembra così forte, e per almeno due ragioni. La prima: una volta che in tutti noi sarà entrato in testa (e ce lo stanno dicendo in ogni momento e in tutti i modi) che il pericolo siamo proprio noi, che ad esempio siamo degli irresponsabili se vogliamo uscire a fare una passeggiata in un parco (non parliamo nemmeno della sospensione di ogni attività politica e sociale), ebbene, a quel punto avremo ben compreso che il principale pericolo per la vita umana è – come ci ricorda Hobbes – un’altra vita umana.

A questo riguardo è stato appena resa pubblica una ricerca di un gruppo di scienziati dell’Università di Oxford in cui si cerca di dare conto del tasso di letalità dell’infezione che è particolarmente alto in Italia rispetto, ad esempio, alla Cina. L’ipotesi dei ricercatori è doppia: da un lato il fatto che in Italia quasi un quarto della popolazione ha più di 65 anni e quindi è particolarmente vulnerabile, dall’altro – ed è quello che più colpisce rispetto alla discussione che stiamo facendo – che in Italia i rapporti sociali – nello specifico “extensive intergenerational contacts” – sono particolarmente caldi e corporei. Come a dire, ne muoiono così tanti perché sono troppo umani, in particolare con i vecchi (d’altronde la storia di Roma è cominciata con un figlio che si portava sulle spalle il vecchio padre).

La seconda: ci sono le ragioni della medicina, ma non ci sono solo le ragioni della medicina. Anche perché la crisi italiana è una crisi costruita in anni e anni di tagli sistematici alla sanità pubblica (homo homini lupus come massima di governo è operativa da molto prima del Covid-19). Improvvisamente siamo infatti chiamati alla “responsabilità” dallo stesso sistema politico-economico che per anni ha del tutto irresponsabilmente colpito quella stessa sanità pubblica ora esaltata come eroica e indispensabile.

Sostenere che non è tempo per discutere di filosofia e di libertà individuali, che ora è il tempo dell’emergenza, è esattamente il tipo di risposta che non promette nulla di buono. È ora, proprio ora che abbiamo bisogno tanto di vaccini quanto di politica (il referendum costituzionale è saltato via come se niente fosse, il parlamento di fatto è chiuso) e di filosofia. È ora che si decide come sarà il dopo, perché il dopo è già cominciato (sono decenni che si sta preparando questo dopo), ed è un dopo che inquieta.

Il pericolo è la vita, allora, e in particolare la vita umana. E il virus, si dirà? Noi siamo soltanto i “vettori” del virus, il problema non siamo noi, ma il maledetto Covid-19. Ne siamo così sicuri? Secondo lo statunitense CDC (Centers for Disease Control and Prevention) le malattie che si trasmettono dagli animali non umani agli esseri umani, cioè le cosiddette zoonosi, sono responsabili dei sei decimi di tutte le malattie infettive che colpiscono gli umani. Quindi il Covid-19 non sembra proprio essere così eccezionale. Come a dire, ci sarà sempre qualche virus in circolazione che metterà a rischio la salute umana. O che potrebbe metterla a rischio. E quindi rimarrà sempre la necessità di evitare la diffusione di un possibile contagio.

Il dopo Covid-19 sarà comunque un “dopo” con qualche altro virus, e quindi con qualche altra emergenza, o con la semplice possibilità di un’emergenza. Peraltro l’immagine in alto presa dal sito ufficiale del CDC è eloquente: da un lato gli animali dall’altro gli umani, gli uni contro gli altri, una guerra permanente. Solo che ora fra i “nemici” ci stanno anche gli altri umani.

In questo senso quella che stiamo vivendo è sicuramente un’emergenza, ma un’emergenza che sta diventando cronica, sarà cioè la nuova normalità: e questo vuol dire che ci stiamo abituando all’emergenza, e questo vuol dire che abbiamo introiettato di essere noi stessi l’emergenza che vogliamo superare. D’altronde non è un caso che molte delle nazioni che hanno più efficacemente contrastato la diffusione dell’epidemia siano non democratiche, a partire dalla Cina (qualche giorno fa, in una conferenza stampa presso la Regione Lombardia, i medici della Croce Rossa cinese facevano presente stupiti di quante persone avessero visto andare liberamente in giro a Milano: “Tutti devono stare a casa”, ha detto, e ricordando che si tratta di un funzionario del regime comunista cinese viene da pensare).

A questo riguardo il caso di Singapore è ancora più efficace, o temibile, a seconda di come immaginiamo sarà il dopo. A Singapore chi è sotto il cosiddetto regime di Quarantine Order (QO), deve rimanere a casa, e i suoi spostamenti sono video controllati a distanza. In questo modo l’infezione non si diffonde e la salute pubblica è salva. È questo il punto: così l’epidemia si può fermare, e quindi da un punto di vista sanitario è l’unica cosa da fare.

Verrà il tempo, però, di chiedersi se il punto di vista medico è l’unico da tenere in considerazione. La vita sarà salva, ma in che senso è una vita umana una vita videosorvegliata e tendenzialmente sempre in isolamento? Una volta il Cristo diceva «Diliges proximum tuum sicut teipsum» (Matteo 19, 19), («Ama il prossimo come ami te stesso»). Se il prossimo non solo non lo puoi più amare, ma addirittura lo devi temere perché è pericoloso, perché sai che è infetto (ed è proprio così, ci sono anche i temibili portatori sani del Covid-19), come potrai amare te stesso? Se non hai più nessuno da amare, come potrai non odiare anche te stesso?

Riferimenti bibliografici
T. Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 2005.
F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari 2014. 

Share