Bisogna fare i film che sono possibili
dove ci si trova.

Jean-Luc Godard

Come da titolo, cinema “fatto in casa”, se altrove è impossibile, causa lockdown. Homemade è la raccolta di diciassette cortometraggi, firmati da altrettanti registi internazionali, disponibile in streaming su Netflix e coprodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment e Fabula di Juan de Dios Larraín e Pablo Larraín.

Sono film girati – per lo più, ma, come vedremo, con qualche importante eccezione – proprio tra le mura domestiche, magari con lo smartphone (da Larraín stesso, da Naomi Kawase, da Paolo Sorrentino, Antonio Campos, Kristen Stewart, Maggie Gyllenhal, tra gli altri), magari con la collaborazione di parenti e amici, per poi, sempre domesticamente, fruirsi via streaming. Si direbbe quindi che la proposta, così configurata, intrecci e renda ulteriormente manifesta una questione da più parti sentita. Come fare e pensare cinema adesso, in che modo, “con” e “su” cosa?

Non è dunque l’unica iniziativa in questo senso, non l’unico cinema “fatto in casa”, benché forse quello a più ampia e immediata risonanza mediatica, vuoi per il richiamo dei nomi coinvolti, di Netflix e la sua fidelizzazione, o lo stesso pensarsi ad hoc, e proporsi pienamente organica alla situazione di confinamento domestico da pandemia.

A filmare, quindi, coi mezzi che si suole classificare “poveri”, sono qui cineasti per lo più mainstream, premiati e internazionalmente riconosciuti, sia pure, alcuni, su fronti più defilati. Non disdegnano, quindi, limitatezza e mezzi poveri (non possono farlo, causa lockdown) autori che sono (meglio: sarebbero stati) in condizione di accedere ad altri più onerosi e sofisticati. Il che, nella condizione di limitatezza tecnica, di materiali umani e non (oltre che spaziale) che tutti accomuna, evidenzierebbe intanto (ancora una volta) che il cinema può/deve pensarsi svincolato da condizioni tecniche, produttive, economiche “usate”, e farsi altrimenti, prescindendo da tecnologie e dispositivi “canonici” e magari dispendiosi.

Questo porta ad effettuare un’ulteriore considerazione. Che l’inattività imposta dal lockdown al cinema (come a – quasi – tutto “il resto”) si comprenderebbe, certo, in quanto misura “cautelativa”, se intesa a preservare salute e vite di esseri umani. E di “materiali umani” che lavorando su set sarebbero a stretto contatto e dunque a rischio di veicolare/contrarre il virus. Lo stato di fermo non implica però una impensabilità o una infattibilità radicale. A meno che non si identifichi (equivocando) e non si faccia coincidere in toto il cinema con le sue condizioni materiali di fruizione, distribuzione, produzione (che del resto son cambiate, e non cessano di cambiare da tempo – o da sempre? – ), tutt’altro che assolute, date e fissate una volta per tutte.

Ora, al di là del dato tecnico-produttivo (per notevole che sia, comunque), che segnalerebbe un farsi casalingo-spartano-artigianale del mezzo (ma questo di per sé non costituisce comunque un fatto nuovo nella storia del cinema) che è in un certo senso obbligato dal lockdown e tutti accomunerebbe (livellerebbe, “mainstream” e “underground” – virgolette d’obbligo – ma comunque sotto egida Netflix), cosa significa chiedersi “come fare e pensare cinema adesso?”

Forse, soprattutto, che lingua fargli parlare ora. Se e come un linguaggio, stili e forme, modalità espressive, da quella tecnica e su quel dispositivo e con le limitazioni che sappiamo, possa misurarsi col presente. Se in quel linguaggio qualcosa del presente si riversa, s’agita, si rivela, e si mette in forma, mediato, qualcosa dei modi contemporanei di sentire e interpretare il mondo e al contempo li orienta. Se a quel linguaggio, fatto che abbia tutto ciò, e tutte le costrizioni spaziali coesistenti con le “dislocazioni” per altri supporti e devices considerate, si possa poi dar nome (e specificità) di “cinema”, deus absconditus ma in machina, sparpagliato per schermi più piccoli che gli somigliano (e spesso cercano di “mimarlo”) dei quali, pure, è stato progenitore.

E allora, “cosa fanno” i diciassette (allo stato attuale) corti di Homemade? I più riusciti, staccando da altri che lo sono meno, mettono in forma di cinema qualcosa dei nostri modi di vedere in tempo di pandemia, reinventano come cinema (e risignificano) qualcosa che cinema non è, altri audiovisivi, altri dispositivi.

È, per esempio, il caso del lavoro di Pablo Larraín, Last Call, che mette in forma uno dei nostri modi di vedere e interagire più uso in fase di lockdown, la videochiamata (ma senza limitarsi a “riprodurla” tale e qual è), e un sentimento, il disagio d’esser soli dinanzi a una fine che si teme prossima, la ricerca di conferme d’aver lasciato una qualche traccia nelle persone che si sono conosciute nell’arco di una vita. Un anziano, da una casa di riposo, contatta via Skype un vecchio amore per farle un’ultima, accorata dichiarazione. La risposta, spiazzante, relativizza un sentimento che nella dichiarazione si pretendeva invece assoluto, totale. E rivela un non poter esser persuasi da chi non s’è fatto amare comunque, e, in definitiva, l’idea che “il virus ci renderà migliori”, si scopre possibile solo a delle condizioni.

E se il lavoro del cileno parla (anche) del disvelamento di un distanziamento affettivo a dispetto della prossimità virtuale e tecnologica, quello di Ladj Ly proprio della tecnologia s’avvantaggia per tentare di approssimare altri individui. Un drone viola il confinamento domestico, andando a vedere “Per chi, questi, sono tempi difficili?”, e riprendendo alcuni motivi de I miserabili, scopre tra i più colpiti dalla pandemia – che ha aggravato disparità e condizioni sociali ed economiche già critiche –, chi dapprima del lockdown era confinato, relegato, non visibile e marginalizzato. Sono gli abitanti della banlieu-palazzopoli di Montfermeil.

Ironicamente claustrale, invece, più che domestico, il corto di Sorrentino, che tra le mura di casa (e le librerie, sfondo d’ordinanza di tante videochiamate) inscena l’impossibile visita in Vaticano della regina Elisabetta a Papa Francesco con i loro pupazzi, che snocciolano riflessioni sulla loro condizione prepandemica di confinati. Voyage au bout de la nuit (questo il celiniano titolo del film), dunque non nascondendo affatto di non poter essere qualcosa, di non poter dire “realisticamente” le cose, ed esibisce, al contrario, questa stessa impossibilità per pensare altrimenti come e cosa raccontare. Il papa e la regina come icone pop, quindi, con lo stesso spessore di altre (fanno capolino anche i pupazzi di Maradona e Jeffrey “Drugo” Lebowski) appartenenti a un midcult da social network, ampiamente condiviso, come fossero (e infatti sono) passati tra le mani e gli occhi di memers. Familiari, dunque, o “addomesticati”, fatti stranamente domestici, se, invece di pensarsi come confinati di lusso in torri d’avorio, non sembrano dissimili da quanti hanno vissuto la propria casa un po’ come un cerchio magico.

Dunque, il mondo (o meglio: i mondi) che Homemade media nei suoi momenti migliori è certamente quello di case e dispositivi come vissuti nei lockdown mondiali, ma appunto messi in forma, risignificati dal cinema, anziché limitarsi a replicarne le pratiche, come il “filmare da telefono”, o a basarsi interamente – come alcuni dei corti della raccolta –, sugli screenshot di una chat.

Tutto ciò, quindi, non solo addita a suo modo dei “modi” di far cinema malgré tout, ma in un certo senso conferma qualcosa che del cinema è sempre stato: l’invenzione di possibili non dati, di altri mondi e vite e sguardi e storie, riconfigurando e mediando questa, anche quando preclude possibilità (impossibile lo sguardo antigravitazionale di Ladj Ly come l’udienza di Sorrentino), anche misurandosi con la propria stessa difficoltà/impossibilità di farsi e ogni volta reinventandosi.

A ogni momento di crisi, quindi, della sua storia e della nostra, e che, nel caso del cinema, non è quasi mai storicamente data (sebbene, a ogni suo turning point sociale e tecnologico, i più sono indecisi se sfoderare la vanga o il defribillatore, sentirgli le pulsazioni, e decretarne alternativamente la morte o la sopravvivenza marginale), ma forse gli è un po’ consustanziale. Tanto quanto lo è (stata) ai modi di pensare, di sentire, alle forme espressive e in definitiva alla cultura della modernità tutta, cinema incluso, sempre presa dal criticarsi, dal ripensarsi, risignificare le sue forme di vita.

Come farsi e pensarsi, il cinema l’ha sempre pensato, in un certo senso: è fatto trans-storico – questo,– “suo”, che però l’eccezionalità dell’evento-pandemia, obbliga a declinare, risignificare, in modo nuovo.

E i corti possono benissimo risignificare anche la casa, facendone luogo paradossalmente “non familiare” (e d’altra parte, ho accennato più sopra al concepirla quasi come “cerchio magico” in tempi pandemici). Unheimlich, cioè, come sosteneva Dottorini su questa rivista.

Come annotava Freud proprio nel suo saggio sul perturbante, quando riportava le sfumature di significato del termine «familiare» (heimlich), ne trovava una che curiosamente vedeva quella «parolina» coincidere «col suo contrario, unheimlich» (Freud 1984, p. 23), «nascosto», «non familiare». L’esser non abituale, non ovvio, inconsueto del quotidiano (casa compresa), o quelle diramazioni contemporanee dello Unheimlich che secondo Mark Fisher sono Weird e Eerie (rispettivamente: l’intrusione nel familiare di qualcosa di debordante, eccessivo, che normalmente ci si aspetta fuori di esso; mancanza di qualcosa quando ci si aspetterebbe di trovarla, o, all’opposto, la presenza di qualcosa quando non dovrebbe esserci nulla), sono al cuore di più lavori.

Più indirettamente, ad esempio, in quello di Kristen Stewart (insonne non diversamente da chi, in questi mesi di telelavoro, ha sperimentato sfasamenti del ritmo sonno-veglia, iperattività e burnout), quasi interamente giocato su un asfittico primissimo piano che astrae la casa in quanto luogo “fisico” e la fa mero contenitore di un malessere.

Defamiliarizzata (in un senso più ludico che apertamente inquietante) è la casa anche nel lavoro di Nadine Labaki e Khaled Mouzanar, dove una bambina, chiusa nella sua stanza, gioca a spaventarsi immaginando un mondo sempre più sinistro. E soprattutto, lo è nel corto di Antonio Campos, nel quale lo sconosciuto che due donne in quarantena con le loro figlie rinvengono nei dintorni di casa, e che accolgono, appare dove non ci si aspetta di trovarlo o può essere in più luoghi contemporaneamente.

Da questo punto di vista, le cose migliori di Homemade mettono in forma e mediano quel sentimento che certo in molti abbiamo esperito: l’esser improvvisamente non familiare del quotidiano, la scoperta di un mondo che non sembra tenere più, che, seppur chiamato “casa”, si avverte non più domestico, non ovvio. “Non appaesato”, quindi, “meno mondo”, come questo appare ad ogni crisi, a ogni sua “fine” e apocalisse (De Martino).

Un mondo da mediare e risignificare, da reinvestire di un qualche senso. Il cinema, comunque lo si faccia, c’è.

Riferimenti bibliografici
E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2019.

M. Fisher, The Weird and the Eerie: lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma 2016.
S. Freud, Il perturbante, Theoria, Roma 1984.

Homemade – Storie nate in quarantena. Ideatore: Lorenzo Mieli, Juan de Dios Larraín e Pablo Larraín; interpreti: Kristen Stewart, Maggie Gyllenhaal, Sebastian Schipper; produzione: Netflix, Fabula, The Apartment; origine: Stati Uniti; anno: 2020.

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