Perché continuare a guardare Homeland dopo otto stagioni e quasi nove anni dal primo episodio? Dalla messa in onda del pilot, il 13 settembre 2011, in pressoché perfetta concomitanza con un anniversario decisivo nella memoria collettiva statunitense, tutto è cambiato: si sono modificate le coordinate del racconto, molti dei personaggi si sono avvicendati, sono emerse nuove ambientazioni e preoccupazioni, e soprattutto il mondo si è radicalmente trasformato. Perché allora resistere sino alla fine di un oggetto seriale che sembra ormai inesorabilmente e ostentatamente “fuori stagione”?

Si potrebbe argomentare: per l’affezione per le vicende di Carrie Mathison e Saul Berenson (gli unici protagonisti sopravvissuti), che ha avuto la meglio nonostante la stanchezza palpabile che è affiorata nelle ultime stagioni. O per rispondere a Jason Mittel, che nel suo già classico Complex TV prende congedo dal lettore scrivendo che «la definizione dei significati politici di Homeland deve rimanere aperte e provvisoria fino alla conclusione della serie, nel momento in cui ha dimostrato la propensione a correggere drasticamente il tiro dei suoi messaggi» (Mittel 2017, p. 559). Oppure ancora, data la capacità della serie di premediare – riuscire cioè a dare immagine a eventi non ancora accaduti – snodi tragici e salienti dell’attualità (e a volte quasi prevederli, ad esempio l’attentato nella metropolitana di Berlino della quinta stagione, in concomitanza con le stragi di Parigi del 2015), per soddisfare il desiderio di consultarla come un oracolo, per vedere se sia in grado di regalarci, per l’ultima volta, un indizio su quanto ci attenderà nel futuro.

Qualunque siano le motivazioni che ci spingono a resistere per tutto questo tempo, in attesa di un finale che di solito frustra le nostre aspettative, arrivati al fondo di queste otto stagioni è utile tornare al punto di partenza. Non è una scelta insolita, tutt’altro, e in effetti la serie stessa ci invita a farlo (lo ha anzi già fatto, nell’ultima inquadratura della sesta stagione): si pensi alla sigla, un collage dei momenti salienti delle stagioni precedenti, o al ruolo di Carrie, messa nei panni di eroina/traditrice che furono di Nicholas Brody, o ancora al titolo dell’ultimo episodio, “Prisoners of War”, lo stesso del pilot. Attraverso questo sguardo retrospettivo si possono apprezzare meglio alcune linee di sviluppo che hanno garantito una coerenza a un oggetto seriale che, al suo apparire, ha suscitato unanime consenso di critica pur nella sua controversa rappresentazione della lotta al terrorismo. Nonostante i cambi (di personaggi, valori, ambientazioni, registri…) e l’andamento discontinuo della narrazione e della credibilità delle situazioni messe in scena, questa coerenza ci consente di pensare a Homeland come una serie unica nel suo genere, un genere che forse con la fine di questa prende definitivamente commiato dai nostri schermi.

Dopo il rientro in patria delle stagioni 6 e 7, le vicende si trasferiscono nuovamente al di fuori del territorio statunitense, in Afghanistan, dove del resto la Guerra al terrore è effettivamente iniziata, per negoziare il ritiro delle truppe americane dal Paese asiatico, dopo quasi vent’anni e migliaia di morti. Il ritorno alle origini non riguarda dunque solo la storia (sviluppata dalla serie), ma anche e soprattutto la Storia (che ha definito sinora questo secolo): un’esigenza di introspezione che continuamente ritorna nei commenti di Carrie sulla mentalità collettiva americana dopo l’11 settembre, dal quale “questo Paese è uscito fottutamente pazzo”.

In questo scenario al contempo vecchio e nuovo, che cosa è restato di quelle prime due stagioni che hanno fatto incetta di premi e intercettato ampiamente il dibattito critico e politico? È di certo scomparso ogni legame con il suo nucleo originario, la serie israeliana Hatufim (che significa appunto “prigionieri di guerra”) nonostante la sigla continui a riportare la sua filiazione da quella fonte. Una filiazione che tuttavia appare oggi come un pretesto sin dal principio, facendo dunque finta di essere un tassello di una filiera transmediale mai davvero iniziata. Se Homeland non deriva veramente da un altro oggetto di finzione, non è tuttavia nemmeno “basata su una storia vera” (come sempre più spesso accade: The Crown, Chernobyl, Caterina La Grande, Mindhunter, Unhorthodox, Pose…), non cerca cioè di dare nuova forma a un passato che innegabilmente costituisce il principale serbatoio d’ispirazione a cui attinge l’audiovisivo contemporaneo. Piuttosto, Homeland si basa su una storia vera che però sta accadendo o che addirittura è possibile che accada. Questo è quanto in fondo è sempre rimasto costante: il gioco rischioso di dare forma al presente, affrontando a viso aperto la realtà e accettandone sempre più i rischi (e per questo motivo può essere così criticata per le sue inesattezze o la sua potenziale islamofobia).

L’ottava stagione non fa eccezione a questa relazione improvvisata – fondata sull’arte dell’improvvisazione – tra il racconto seriale e la realtà contemporanea, anzi, la porta su un ulteriore livello di complessità che fallisce proprio perché il fallimento è un’eventualità pienamente inscritta dentro le regole del gioco stesso. È un aspetto, questo, che sin dal principio della serie è tematizzato dalla narrazione, che affronta di stagione in stagione il mutare degli interessi che orientano la politica estera degli Stati e l’operato dei servizi segreti. Nessun finale è possibile nell’universo dello spionaggio, perché ogni vittoria non è mai definitiva e ogni sconfitta è sempre il rovescio di una potenziale rivincita; nessuna stabilità è assicurata, perché ogni nemico di oggi sarà un imprescindibile alleato di domani (in questo caso il leader talebano Haissam Haqqani), secondo una dinamica complessa che regge il gioco dei percorsi dell’immedesimazione spettatoriale.

Con il primo episodio trasmesso il 9 febbraio, Homeland sembrava essere riuscita a mantenere quell’equilibrio fragile tra premediazione e tempestività che ne ha segnato la fortuna: esattamente un mese prima, Stati Uniti e Iran erano in punto di guerra e le vicende geopolitiche della regione erano al primo posto delle preoccupazioni internazionali. Ma non è servito troppo tempo perché quella tempestività si tramutasse in anacronismo, o addirittura obsolescenza, nel momento in cui il Covid-19 ha assunto il monopolio dei discorsi globali. Nell’arco di un mese, l’aderenza al contemporaneo è diventata scollamento dall’attualità (non l’attualità geopolitica effettiva, ma appunto quella percepita), rendendo anche più affascinante l’esperienza di visione di una serie che ha improvvisamente acquistato tutt’altro senso.

Possiamo allora fare un altro ritorno all’origine, questa volta del libro di Mittel, che esordisce proprio indicando la sovrapposizione cronologica tra la nuova e complessa serialità televisiva e l’inizio dell’epoca della Guerra al terrore: «Nell’autunno del 2001 hanno fatto il loro esordio sulla Tv americana tre serie di spionaggio: The Agency, Alias e 24». È in quella congiuntura particolare, ci dice lo studioso statunitense, che si possono trovare i primi segni per «delineare l’inizio di una nuova serialità americana». Niente sarà più come prima, recitava unanime un coro trasversale all’indomani dell’attentato al World Trade Center, lo stesso che oggi si leva nel pieno della pandemia globale. Niente: nemmeno le forme della serialità, evidentemente.

Se davvero Homeland ha fatto dell’aderenza al contemporaneo il suo tratto più caratteristico, la fine della stagione (e con lei della serie stessa) potrebbe essere interpretata come il sintomo della fine di una stagione (seriale). Homeland è infatti tra le ultime sopravvissute della stagione “epica” della serialità, quella stagione che ha definito buona parte dell’immaginario del XXI Secolo con I soprano (1999-2007), 24 (2001-2010), The Wire (2002-2008), Lost (2004-2010), Dexter (2006-2013), Mad Men (2007-2015), Breaking Bad (2008-2013), Game of Thrones (2011-2019), House of Cards (2013-2018), o The Americans (2013-2018).

È vero, ci sono eccezioni significative a questo schema: The Walking Dead (la cui sorprendente longevità è del resto in perfetta sintonia con il tema trattato), Better Call Saul, e da un certo punto di vista anche Stranger Things e The Handmaid’s Tale. Tuttavia, l’epoca di un epos seriale americano articolato lungo molteplici stagioni sembra stia subendo un integrale ripensamento (le serie precedenti dovrebbero avere in programma solo un’altra stagione), lasciando il campo alle miniserie che, pur accentuando il parallelismo con il cinema usato spesso per descrivere questa svolta estetica, non sembrano più così interessate a creare degli ecosistemi narrativi capaci di uscire dal mondo della finzione per riversarsi nella realtà degli spettatori e accompagnarli lungo un’ampia porzione della loro esistenza. Un fuoricampo transmediale ancora presente altrove, ad esempio in Gomorra – La serie o La casa di carta, ma non più al centro delle preoccupazioni dei producer statunitensi, che concentrano le loro strategie più sull’immediatezza dell’effetto sorpresa (gli episodi caricati tutti in una volta e non più diluiti settimanalmente) e sulla durevolezza dell’attualità seriale (come un film appunto, dunque la possibilità di vedere una serie molto tempo dopo la sua messa in onda senza sentirsi fuori stagione).

Homeland è dunque posta sotto il segno della sopravvivenza – forse ancora più delle altre serie ancora in attività, proprio perché è l’ultima rappresentante di quel genere spy che ha impresso il suo marchio sul ventennio seriale del nuovo millennio – così come lo sono i suoi due protagonisti, Carrie e Saul, nonostante i tradimenti presunti, i cambi di scenario e di casacca, i doppi e i tripli giochi, i finti attentati reciproci. E se ci prende uno strano senso di straniamento di fronte alle ultime stagioni, è forse perché la serie stessa ha presagito questa fine senza tuttavia saperla mettere in forma in modo compiuto. Forse perché la stessa Guerra al terrore non può conoscere una vera e propria fine: in fondo, è proprio contro questo fantasma che questa ottava, ultima stagione, cerca disperatamente di lottare.

Riferimenti bibliografici
J. Mittel, Complex tv. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, a cura di F. Guarnaccia e L. Barra, Minimum Fax, Roma 2017.

G. Tagliani, Homeland. Paura e sicurezza nella Guerra al terrore, Edizioni Estemporanee, Roma 2016.

Homeland – Caccia alla spia. Ideatore: Howard Gordon e Alex Gansa; interpreti: Claire Danes, Mandy Patinkin, Mohammad Bakri, Costa Ronin, Nimrat Kaur, Numan Acar, Maury Sterling; produzione: Taekwood Lane Productions, Cherry Pie Productions; origine: USA; anno: 2011-2020.

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