La Guerra in Iraq e Afghanistan è stata certamente il primo conflitto post 11 settembre 2001 altamente mediatizzato, per via dell’interesse del mondo occidentale che ha prodotto e condiviso una massiccia dose di documentazione e materiale video. L’interesse degli studiosi di cinema documentario si è, fin dall’invasione americana del 2003, interrogato sulle forme di rappresentazione del conflitto e sulle loro possibili funzioni in campo sociale e politico. Se da una parte, specialmente per quanto riguarda lo scenario iracheno, molti sono stati, nel corso degli anni, film che più che concentrarsi sulle dinamiche belliche o sul coinvolgimento dell’occidente gettavano luce sulla vita della popolazione locale, tra i più celebri possiamo ricordare My Country, My Country (Poitras, 2005), e Iraq in Fragments (Longley, 2006), è anche vero che molti di questi ritratti venivano realizzati dalla prospettiva di registi e registe statunitensi. L’attenzione però che queste opere hanno suscitato all’interno del circuito festivaliero e non solo ha portato anche gli stessi iracheni e afghani a realizzare documentari, e a poterli distribuire, che potessero mostrare il conflitto da un punto di vista prettamente interno, un punto di vista che fin da subito ha messo in discussione l’efficacia e le attuali intenzioni dell’invasione americana.

Per prima cosa si è andato a formare un vero e proprio universo mediale amatoriale che rigettava le immagini di morte e distruzione che dominavano la narrazione dei network internazionali, per concentrarsi invece su scene di vita quotidiana, attraverso testimonianze che potessero coinvolgere direttamente chi la guerra la stava vivendo sulla propria pelle. Collettivi provenienti dall’Independent Film and Television College (IFTC) di Baghdad, ad esempio, hanno dato il via ad una e vera proprio contro-narrazione, un contro-archivio che si oppone alla pornografia del reale per andare cogliere microstorie che possono andare a modellare e costruire una memoria collettiva, un processo di autodeterminazione per fare in modo che gli iracheni non vengano visti e dipinti semplicemente come vittime collaterali nel racconto occidentale. Come sottolinea inoltre Ryan Watson, facendo riferimento anche ad altri esempi in Medioriente, si pensi al conflitto israelo-palestinese, il fatto di concentrarsi sulla “banalità della vita quotidiana” è stata effettivamente la svolta radicale per decostruire la spettacolarizzazione dell’operazione Shock and Wave dell’esercito americano (Watson 2021).

Con il ritiro delle truppe americane in Afghanistan, avvenuto nell’agosto del 2021, la situazione è passata di nuovo nell’ombra per il mondo occidentale, mentre i talebani hanno ripreso il potere instaurando un regime militare. Potrà nuovamente il cinema in quello scenario tornare ad essere ancora “first person political”? Facendo riferimento al concetto formulato da Alisa Lebow che vede, prevalentemente nei paesi arabi, la formazione di un cinema, a partire dall’ondata di proteste delle Primavere Arabe, che si fa centro di una metafora e messa in scena della rivoluzione. Hollywoodgate, presentato Fuori Concorso alla Mostra del cinema di Venezia, si interroga sulla problematicità di tornare a raccontare un mondo in cui vige una dittatura e in cui tutti i mezzi di informazione sono in mano ai talebani. Ibrahim Nash’at, documentarista egiziano che ha avuto modo nel corso della sua decennale carriera di avvicinarsi e intervistare i più importanti leader mondiali, riesce a mettersi in contatto con Abdullah Mukhtar, esponente di punta del regime talebano, che vuole realizzare un documentario di propaganda per mostrare quanto siano false le accuse che l’occidente muove nei loro confronti. La problematicità dello sguardo a partire dal lavoro di committenza viene esplicitata fin da subito da Nash’at, la cui voice over avvisa lo spettatore dicendo che quello che vedrà sarà quello che il regista ha avuto il permesso di filmare, cercando di ribaltare però l’intenzione di propaganda talebana mettendo in scena il proprio punto di vista. La retorica del regime risulta fin da subito poco credibile, i talebani cercano infatti, ad esempio, di giustificare il motivo per cui hanno deliberatamente tolto i diritti alle donne seguendo le condotte prestabilite dalla Sharia.

Il film, tuttavia, si svolge prevalentemente all’interno della base CIA a Kabul che gli americani hanno abbandonato dopo il ritiro delle truppe, distruggendo i computer e quindi impendo ai nemici di accedere a materiale riservato ma lasciando armi e aeromobili adesso in mano ai talebani che esplicitano di volerle usare per un’imminente invasione del Tagikistan. Nonostante il regista, a più riprese, racconti come le persone in Afghanistan abbiano paura e siano costantemente in pericolo, immagini di repertorio di violenze mosse dal regime nei confronti della popolazione, soprattutto donne, vengono mostrare solo in apertura, il film si concentra prevalentemente nel mostrare i nuovi signori della guerra che camminano esterrefatti all’interno degli hangar della CIA, cercando di vedere cosa è possibile utilizzare. Lo sguardo del regista risulta infatti schiacciato dalla fascinazione nel seguire i talebani e i loro racconti, ancora una volta di una retorica poco credibile, che hanno inevitabilmente un effetto inverso a quello della propaganda che il regime cercava. Il film risulta quindi certamente un punto di inizio nel nuovo racconto del conflitto, la cui radicalità e originalità sta nella possibilità di aver seguito da vicino i talebani ma ancora si discosta da un’intenzione “first person political”. Tuttavia l’importanza del film sta certamente nell’aver riportato l’attenzione dell’occidente nei confronti di un territorio che in qualche modo sembra ormai non appartenerci più, dal momento che la politica internazionale ne ha perso interesse non essendoci altre forze militari coinvolte. Con la speranza che il cinema, ancora una volta, nei luoghi di conflitto possa essere strumento determinante per raccogliere una testimonianza e avere un ruolo centrale in chiave politica e sociale.

Riferimenti bibliografici
A. Lebow, First Person Political, in The Documentary Film Book, B. Winston, a cura di, British Film Institute, London 2013.
R. Watson, Radical Documentary and Global Crises: Militant Evidence in the Digital Age, Indiana University Press, Bloomington 2021.

Hollywoodgate. Regia: Ibrahim Nash’at; sceneggiatura: Ibrahim Nash’at, Talal Derki, Shane Boris; fotografia: Ibrahim Nash’at; produzione: Rolling Narratives, Jouzour Film Production, Cottage M, RaeFilm Studios; origine: Germania, USA; durata: 92′; anno: 2023.

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