Hokage (Shadow of Fire) di Shin’ya Tsukamoto.
Nel buio di un tugurio semidistrutto, corroso, con le pareti bruciate, percorso da ombre e da bagliori di fiamme che lo squarciano, intravediamo il corpo gracile, consunto, di una ragazza che dorme riversa su un fianco. La camera perlustra quella oscurità con movimenti netti e convulsi fino all’irrompere di un uomo che prende la ragazza in un amplesso disperato e furioso. Comincia così Hokage di Shinya Tsukamoto, film di sconvolgente forza che attanaglia e stringe come in una morsa il nostro sguardo, condotto lungo una sorta di calvario attraverso la macerazione e i detriti del dopoguerra giapponese, del mondo postatomico e devastato dagli orrori bellici e dalle lacerazioni di corpi e anime che tali orrori hanno prodotto. Tsukamoto parte da questa idea delle ombre guizzanti proiettate da un fuoco distruttore, di una spettralità come condensata nelle parvenze dei corpi, con la pregnanza in movimento continuo di spettri fatti di carne, che si nascondono nel fondo oscuro dello spazio.
Quell’anfratto buio è quanto resta di una locanda dove la ragazza oltre a preparare il cibo agli sparuti clienti vende il proprio corpo per sopravvivere, e quell’uomo cui si è data è un giovane soldato reduce dalle Filippine. Il soldato promette alla ragazza di tornare il giorno dopo per pagarla, e il giorno dopo ancora, e così via senza tenere fede alla promessa. Trova rifugio da lei come se cercasse in quel luogo un conforto dalle pene della sua solitudine, di una psicosi persecutoria indotta dal trauma bellico. La ragazza lo accoglie ogni volta, remissiva e insieme chiusa in un dolore sordo che la rende passiva e abulica. Un soldato, una ragazza, un incontro amoroso nel buio della guerra: si pensa subito al breve amore tra il soldato Joe e Carmela nell’episodio siciliano di Paisà (1946). E in effetti il tratto rosselliniano, e insieme il riferimento al neorealismo, viene confermato dal terzo personaggio che frequenta la locanda: un bambino, un piccolo orfano di guerra che porta alla ragazza il cibo rubato al mercato nero.
Una piccola vittima della guerra costretto a crescere in fretta, un ladruncolo, una sorta di sciuscià, che rimanda tanto allo scugnizzo dell’episodio napoletano del film di Rossellini, quanto ai bambini di De Sica. Hokage compone come il controcampo fatto di ombre spettrali dei due film precedenti di Tsukamoto: Zan (Killing, 2018) e Nobi (Fires on the plain, 2014) in cui il segno del fuoco, le immagini infiammate della guerra e dell’atto di uccidere scandivano le visioni, quasi le trafiggevano con le lame infuocate di una visualità incandescente. In questo senso il titolo che si traduce in “ombra di fuoco” indica il riproiettarsi del fuoco di quelle immagini in forma di ombre spettrali eppure incarnate nel dolore dei corpi. Il film è scandito in tre affondi allucinatori, in una tripartizione di squarci visionari, come tre pannelli di un polittico che ha la corrusca incisività delle acqueforti di Goya sui “disastri della guerra”.
La prima accensione visionaria è tutta conficcata nello scavo claustrofobico della relazione ragazza-soldato-bambino, che si affastella lungo straordinari intarsi di dissolvenze e sovrimpressioni, silenzi e suoni ottusi, gesti di pietà e tenerezza e improvvisi accessi di violenza reattiva, entro cui circolano le tre singolarità di comportamenti-sentimenti. Quelli della ragazza che nutre il suo dolore inerte e il suo bisogno di affettività e vede nel soldato e nel bambino il ritorno fantasmatico del marito e del figlio persi in guerra, del soldato sbandato invaso da accessi di follia come da momenti di abbandono e dedizione e del bambino che oppone la sua caparbietà innocente e vitale alle atrocità che ha attraversato: la famiglia sterminata e la casa distrutta dal fuoco delle esplosioni. Una elaborazione del lutto, il vissuto di un trauma, un istinto vitale di sopravvivenza animano le pulsioni dei tre che a poco a poco stringono fra loro una sorta di patto.
In questa dinamica si alternano tenerezza e impulsi distruttivi, le ombre del fuoco annientatore dell’esplosione nucleare (che insiste in un fuoricampo precluso alla vista ma si riversa nell’anfratto buio con l’impeto di una eco invisibile) si riverberano nei gesti minimi e nella emblematica presenza di oggetti-segni che assumono una funzione concreta e insieme simbolica: la pistola che il bambino ha sottratto al cadavere di un soldato, il libro di algebra su cui il reduce, ex insegnante, impartisce con slancio empatico lezioni al piccolo, il povero cibo che viene cucinato con cura e il vestitino che viene cucito dalla prostituta sul corpo del bambino.
Quando l’orbita dell’”oscuro scrutare” della camera nei recessi psicofisici dei corpi e delle anime dei tre personaggi (e qui il procedere endoscopico, l’anatomia delle fisicità mutanti tipiche del maestro giapponese torna in una forma introflessa e intima) sembra vorticare fino a sprofondare in un nero assoluto, ecco che Tsukamoto, con una svolta visionaria geniale scivola letteralmente lungo i muri rugginosi del tugurio che sembrano coincidere con l’epidermide pellicolare della materia filmica stessa, fino a invadere lo schermo con una luce abbacinante che richiama l’esplosione atomica e ad aprire ancora una volta uno squarcio abissale con le immagini in un bianconero sovraesposto e bruciato delle vedute dall’alto delle città distrutte dal fuoco dell’atomica. Qui l’astrazione di una guerra epitome di tutte le guerre diventa concrezione dell’olocausto nucleare, della carneficina di Hiroshima e Nagasaki.
La seconda parte apre un ulteriore squarcio nel film inducendo l’insorgere di un altro spettro che porta sulla propria carne e nella propria anima sconvolta da una furia vendicatrice il crisma di una mutilazione (ha un braccio immobilizzato). Si tratta di un venditore ambulante anch’egli reduce di guerra cui il bambino si accompagna indotto dalla promessa di un lavoro. Ma è al perpetrarsi di una vendetta che viene condotto il bambino e la pistola che porta in tasca servirà al reduce a infliggere una serie di colpi al suo ex comandante, che vediamo da lontano attraverso la porta scorrevole seduto con la moglie sul tatami intento al pasto, in una inquadratura silente che rimanda al cinema di Ozu. Ogni colpo per vendicare ciascun commilitone, tra cui il migliore amico del reduce, fatto uccidere dal comandante per essersi rifiutato di trucidare i prigionieri di guerra, ma quella vendetta resterà sospesa.
L’intreccio di pietà e crudeltà, di follia ed espiazione, di redenzione e colpa si intesse nelle fibre del film che diventa meditazione sugli orrori della guerra, nella forma sofferta di una “preghiera” (nella definizione che lo stesso Tsukamoto dà alla sua opera). Ecco allora che l’epilogo disegna un arco che lo ricongiunge alla prima parte. La disperazione e le lacerazioni della carne che riducono i corpi a spettri ritrovano un senso nell’empatia. Il bambino torna dalla ragazza, ormai preda di un male contagioso (“non voglio che tu veda il mio viso, mi sono ammalata e potrei infettarti”), ripone la pistola in un vaso (“quell’oggetto pericoloso lascialo a me”), riceve una sorta di viatico dalla ragazza (“vivi al meglio, lavora e guadagna”), e si allontana dalla locanda.
Il bambino vaga per la città in macerie, al mercato nero chiede di lavorare, comincia a lavare le scodelle ma viene scacciato, si inoltra in un andito oscuro popolato dalle larve umane di derelitti e moribondi, incontra il soldato folle ormai definitamente ridotto a spettro, ripone ai suoi piedi il libro d’algebra come un estremo dono di gratitudine. Poi ritorna a immergersi nella folla del mercato, nei suoi rumori, nel suo vociare, ma un improvviso silenzio cala sulle immagini e in quel silenzio si sente, lontano, un colpo di pistola. Il bambino si perde tra la folla, fino a dissolversi, anche lui destinato a mutarsi in uno spettro di carne, risucchiato dal paesaggio di detriti e polvere di questo “Giappone anno zero”.
Hokage (Shadow of Fire). Regia: Shinya Tsukamoto; sceneggiatura: Shinya Tsukamoto; fotografia: Shinya Tsukamoto; montaggio: Shinya Tsukamoto; interpreti: Shuri, Oga Tsukao, Hiroki Kono, Mirai Moriyama; produzione: Kaijyu Theater; origine: Giappone; durata: 93′; anno: 2023.