Un gruppo di giovani passeggiano in un bosco. Qualcuno di loro si china sul terreno e delicatamente raccoglie il campione di una pianta, la ripone tra le due pagine di un giornale, sistema il tutto pressandolo in un grande libro: un erbario. La camera meticolosamente si concentra sulle mani dei raccoglitori. Quei giovani sono “conservazionisti”, si occupano di preservare l’impronta di piante rare e in via di estinzione. Le piante saranno catalogate, conservate, introdotte in una “tassonomia”, secondo la tradizione di Linneo. Si apre così un film affascinante come Herbaria dell’argentino Leandro Listorti (menzione speciale alla 58° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro). Listorti è un filmmaker ma anche un archivista cinematografico, responsabile del coordinamento tecnico del Museo del Cine di Buenos Aires. Infatti fin dall’inizio i gesti e i procedimenti di conservazione delle piante si intersecano, con un “intaglio” suggestivo (un’analogia sempre più intrigante), con i procedimenti e i gesti della conservazione della pellicola, del lavoro di archivio filmico. La forma di vita delle piante è posta in parallelo con la forma di vita della celluloide. Si giustappongono ai dettagli ravvicinati di varie tipologie di piante, di fiori, di vegetazione esotica, le immagini di archivio in cui l’emulsione della pellicola appare erosa, aggredita da batteri e funghi. E quelle striature, quelle venature, quelle ramificazioni entro cui si intravedono immagini sopravvissute al tempo, ma in via di estinzione, assimilano, con qualcosa di allucinatorio, gli strati pellicolari alle forme vegetali.

Le foglie e le pellicole si decompongono con il tempo e il gesto di preservarne la vita coincide con una estrazione dall’organismo delle loro tracce, delle impronte, in modo da preservarne la vita secondo quella che Georges Didi-Huberman definisce «somiglianza per contatto». Questo procedimento di estrazione è anche un procedimento di astrazione, la conservazione astrae ed estrae insieme l’immagine del vivente. Infatti nel film lo splendore perturbante dei filmati di archivio ci giunge come una trafila di fantasmi, producendo quello che Listorti stesso racchiude nella definizione di “capsula del tempo” attribuita ai film, a tutti i film che “lottano” contro il tempo che li consuma (ma anche alle piante che via via si estinguono). Allora come immagini fantasmatiche, come prelievi da un fondo fantastico della natura, i filmati naturalistici ci attirano in una spirale vertiginosa. Così il fiore vivente che il mare racchiude, occulta nei suoi fondali: una specie che merita giustamente il nome di “fiore del mare”: lo Spirografo. Una corolla che si apre e si chiude e sembra respirare.

Lunghi carrelli (che fanno pensare al film di Alain Resnais sulla Bibliothèque Nationale di Parigi, Toute la mémoire du monde, 1956) percorrono i corridoi dei musei di scienza naturale, dove, analogamente ai rulli delle pellicole di celluloide, gli erbari sono conservati in cassette di sicurezza di metallo e racchiusi in alti armadi di legno, mentre una voce fuori campo ci riferisce delle condizioni ideali per salvare le pellicole. A un certo punto del film i due percorsi, la tassonomia botanica e quella cinematografica, si annodano sottilmente. Un cartello ci informa che: «Cristobal Hicken (1875-1933) fu uno dei botanici argentini più importanti del XX secolo. Durante la sua vita produsse una collezione di 15.000 esemplari. La scuola di giardinaggio di Buenos Aires porta il suo nome»; e più avanti un altro cartello si allaccia al precedente: «Pablo Ducros Hicken (1903-1969) fu un pittore e regista argentino, cineamatore. La sua collezione di cineprese e di proiettori è una delle più importanti del mondo. Il museo del Cinema di Buenos Aires porta il suo nome. Cristobal Hicken era suo zio».

I due mondi e le due serie di immagini scorrono in parallelo, echeggiando gesti e suoni reciproci, in una specie di “tattilismo sonoro”. In tal modo Herbaria assume la forma borgesiana di un labirinto che si dipana nello spazio e nel tempo. A poco a poco il film si fa sempre più un poema visivo (come lo erano i film di Jean Painlevé, il cineasta che intrecciava il film scientifico all’avanguardia visiva), slitta nel documentario fantastico, assume una forma metafisica. Borges deve certamente aver visto (in assonanza con le sue “confutazioni del tempo”) uno strano monumento che campeggia nel giardino botanico di Buenos Aires e che Listorti ci mostra: la “colonna meteorologica”, monumento costruito a Vienna e donato all’Argentina nel 1911 dall’Ambasciata dell’allora Impero Austroungarico. Il monumento alto otto metri ha otto facce e sostiene il globo terraqueo. In ciascuno dei suoi otto spazi c’è un elemento che misura il tempo: barografo, barometro, idrometro, igrometro, psicrometro, termografo e termometro massimo e minimo. E vi è posto anche un orologio solare con l’ora locale e otto orologi che indicano l’ora di Londra, Parigi, Madrid, Vienna, Roma, Tokyo, New York e Berlino. Il senso del film diventa sempre più quello di una meditazione “in corpore”, una autopsia sul tempo. Il tempo che si imprime nelle forme e il tempo che le deteriora, fino a custodirle in una sorta di invisibilità, di latenza, di lacuna. L’immagine-archivio si ripiega su se stessa fino a confondere, nell’intarsio puntuale, le immagini che emergono dal tempo e quelle rigirate, ripresentate in un bianconero invecchiato, che abbiamo precedentemente viste a colori. In tal modo, «l’immagine è una mancanza, ma una mancanza doverosa al decorso della memoria, perché testimonia della propria insufficienza e, forse, anche dei limiti a essa non imputabili» (Bellini 2019, p. 101) per cui

l’immagine-lacuna è un’immagine-traccia e un’immagine-sparizione al tempo stesso, nel senso che oscilla in maniera ambigua e ambivalente tra una presenza e un’assenza. Non è una presenza piena ma nemmeno un’assenza assoluta. Non è una resurrezione ma neppure una morte senza resti. È la morte, in quanto fa dei resti (Didi-Huberman 2003, pp. 206-207).

Allora la vertiginosa ripresa dall’alto del lavoro di restauro dei fotogrammi, lo scorrimento sotto le dita dei supporti di celluloide, le riprese che si assimilano alle lenti di ingrandimento, le lunghe panoramiche sulla collezione di proiettori e macchine da presa di Hicken, nipote del grande botanico, si accompagnano, come in un contrappunto musicale, con il lavoro di ricalco della forma vegetale, con il pennino che ne estrae non tanto un esemplare specifico, quanto uno schema, un’idea, un “frutto iconico” della pianta ideale (e qui viene in mente il Goethe scienziato alla ricerca della Urpflanze). Assume dunque senso l’insistere di Listorti anche sui dispositivi ottici che permettono di catturare la forma della pianta. Una ragazza procede a una specie di radiografia della pianta raccolta, la fa trascorrere dal buio alla luce di una lastra: il vegetale si riscrive con la luce del visivo, così come il supporto di celluloide mostra le corrosioni di funghi e batteri che sembrano venature vegetali, efflorescenze che diventano, nella visione ravvicinata, quasi dei dripping alla Pollock.

È sotto le dita dei conservatori botanici come di quelli degli archivi cinematografici che si decostruisce e si ricostruisce la forma di vita di una pianta, di un fiore, di un rametto così come le tracce, le ombre, le impronte impresse sui fotogrammi. Si tratta di una reviviscenza entro cui le immagini e le forme ritornano paradossalmente nel loro sparire. Qualcuno nel film infatti spiega: “Partiamo con il materiale dell’erbario che è la pianta raccolta, erbalizzata, che è stata pressata e che ha perso la sua forma originaria. Il lavoro ha molto della ricostruzione. Fino al punto di ricostruire l’aspetto che la pianta aveva quando era viva”. Ma quell’aspetto può risultare perturbante come un revenant.

In un romanzo fantastico dell’argentino Adolfo Bioy Casares, complice di Borges, L’invenzione di Morel (1940), c’è una macchina (che funziona attraverso la natura delle maree) capace di ridare parvenza fisica ai villeggianti di un’isola, riproducendone la vita felice di una settimana per l’eternità, sempre uguale, ma al prezzo della loro sparizione dalla vita reale, come trattenendone in latenza le forme vitali. Viene in mente appunto la tradizione letteraria del fantastico argentino vedendo Herbaria, film che in fondo mette in questione il nesso preservazione/sparizione. Lo confermano alcuni momenti epitomici del film, che ne suggeriscono anche la natura di “sortilegio” che vi è connessa. A un certo punto la voce di una bambina racconta una favola crudele (molto simile ai racconti fantastici di Silvina Ocampo, moglie di Bioy Casares):

Migliaia di anni fa avvenne un “attacco piantifero”: una delle piante cresciute nella casa di Rosinda prese vita umana, Florecinda non aveva idea di ciò che era accaduto, e quella stessa notte la pianta la uccise. Florecinda era morta, e la mattina seguente arrivò la polizia. Tutti erano sconvolti e meravigliati dell’accaduto. La pianta si voltò verso la polizia e l’attaccò. Tutte le piante e tutti i cattivi del mondo furono spazzati via dal pianeta terra. Finché un meteorite cadde sulla terra e assassinò tutte le piante e gli umani che erano ancora vivi.

In un altro momento una cineasta tedesco-argentina, ormai cieca, Narcisa Hirsch, ricorda le piante che aveva visto nella sua infanzia, come i cardi che spuntavano dalla neve, e, citando la Patagonia, dice di amare sia la vegetazione che il suo contrario, cioè il deserto, perché questo ha qualcosa di metafisico, come il nulla, e conclude “da un po’ di tempo il pianeta dà segni di estinzione. Ma penso che il pianeta non si estinguerà. Saremo noi ad estinguerci”. Ancora, più avanti, una voce di donna parla del concetto di “mostro” come di qualcosa che fugge alla mappatura del reale, una anomalia che fuoriesce dalla classificazione tassonomica: il mostro (da “monere”: avvertire) come un “avvertimento” che ci viene dal soprannaturale. Sullo schermo appaiono intanto delle piante-animali che vivono sul fondo dell’oceano, che hanno mille occhi distribuiti sull’estremità dei tentacoli, oppure trecento braccia per catturare la preda e la bocca situata al centro del corpo.

Se il film si era aperto con il cartello: «A partire dal 1750 circa 500 specie di piante sono scomparse dal pianeta, tale quantità è più del doppio del numero di uccelli, mammiferi e anfibi estinti», si chiude con un cartello parallelo: «Si stima che l’80/90% dei film muti sono scomparsi e approssimativamente solo il 50 % del cinema sonoro sopravvive fino ai nostri giorni». Nella chiusa del film vediamo una pellicola in nitrato infiammabile che brucia, si accartoccia e assume l’aspetto di un fossile. Poi un cartello: «Le immagini seguenti non esistono su un supporto fisico. Il processo di scansione comporta la disintegrazione totale del materiale». Rivediamo i filmati d’epoca corrosi e devastati, poi le immagini di due fiori con i cartelli: «Questo fiore è stato filmato nel 1912», «Questo fiore è stato filmato nel 2021». Rimane nella memoria una frase del film: «La “vita latente” è un fenomeno di difesa che si osserva in certe piante e in certi animali. Quando l’ambiente non è favorevole i semi trattengono la loro vitalità e il loro potere germinativo per un certo tempo. In questo stato i fenomeni vitali sono ridotti al minimo, in modo che l’organismo sembra morto».  Dunque, se il film ci ha mostrato organismi vegetali e organismi pellicolari nella loro survivance, tuttavia una sorta di vita latente delle forme persiste, e riprende incessantemente vita, sotto le dita di coloro che ne preservano le immagini.

Riferimenti bibliografici
M. Bellini, Geroglifici e cinema. Il film come “universale fantastico”, Mimesis, Milano 2019.
G. Didi-Huberman Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano, 2003.
Id., La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

Herbaria. Regia: Leandro Listorti; sceneggiatura: Leandro Listorti; montaggio: Leandro Listorti; fotografia: Fidel Gonzalez Armatta; produzione: Weltfilm Gmbh, MaravillaCine (AR), musica: Roberta Ainstein; paese: Argentina, Germania; durata: 83′; anno: 2022.

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