La ricerca del piacere non è mai stata più pericolosa da quando Clive Barker ha inaugurato un filone di storie su pratiche che sconfinano nella sofferenza, in particolar modo portando sullo schermo nel 1987 Hellraiser, adattamento del suo romanzo breve Schiavi dell’inferno (The Hellbound Heart, 1986). Qualunque sia il medium scelto per la rivelazione di nuovi universi di piacere e orrore (teatro, romanzo, cinema, televisione, pittura, fumetto), capacità comunicativa multidimensionale che precede logiche strettamente industriali di sfruttamento di ogni possibile declinazione di proprietà intellettuali, la narrazione del prolifico autore ha sempre suggerito che non è possibile sfuggire agli orrori che colpiscono la vita delle persone comuni, così come non è possibile sfuggire ai piaceri della carne.
Il nuovo Hellraiser, reboot della saga guidato da una chiara intenzione di sfruttamento economico di un prodotto che risponde inequivocabilmente al modello del franchise, afferma che non si sfugge al cambiamento. La sessualità, l’autodefinizione identitaria, le logiche di distinzione e ruoli di genere sono in continuo mutamento ed evoluzione, e il processo non può essere arrestato.
Il viaggio nelle profondità del nostro essere e della nostra cultura, alla ricerca di pulsioni, piaceri e nuovi modelli non più regolati da inibizioni e pregiudizi programmati dalla società, si trasfigura nel gioco di scatole cinesi che guida la protagonista Riley verso la scoperta del puzzle che apre le porte verso il piacere più estremo e perverso: un magazzino che ospita container di stoccaggio, all’interno di uno dei quali è conservata una cassaforte contenente il cubo. Processo funzionalmente non dissimile da ciò che avviene in Senso (1954) di Visconti, quando la contessa Livia Serpieri è costretta ad attraversare una serie di porte, connotando l’infrazione dei princìpi a cui è profondamente legata, tradendo così la causa rivoluzionaria per aiutare l’amato Franz.
In una delle sequenze inziali di Hellraiser il tono della vicenda è immediatamente dichiarato quando il giovane escort Joseph (il quale sottolinea che gli amici lo chiamano Joey, diminutivo che perde qualunque connotazione di genere, nonché nome della protagonista del terzo capitolo della saga) viene convocato per un incontro col ricco e promiscuo Roland Voight. La prima istanza in cui incontriamo il ben noto puzzle, fulcro dell’intera saga, presenta inaspettatamente lo strumento in causa in una configurazione differente dalla tipica forma cubica a cui siamo stati abituati in quindici anni di film, un prisma retto e allungato di forma chiaramente fallica, con un ago retrattile che penetra la mano del ragazzo.
Così come non è possibile fermare l’oramai avviato processo di trasformazione e riconfigurazione della scatola, che procede autonomamente e inesorabilmente ogni volta che assaggia il sangue di una nuova vittima, non è nemmeno possibile arrestare il percorso di cambiamento di logiche di genere avviato nella società umana una volta assaggiate nuove libertà e nuovi piaceri. Simbolicamente si susseguono, in una sorta di percorso evolutivo, le dipendenze (inevitabilmente legate al piacere) di Riley, dall’alcolismo alla tossicodipendenza fino al sesso. Il puzzle promette, a un mondo che è divenuto insensibile all’indulgenza dei piaceri (siano esse le pratiche sessuali di Voight o le dipendenze di Riley), un’esperienza oltre i limiti che permetta di tornare a “sentire”.
Un medium per nuovi piaceri, nuove pratiche oltre ciò che è stato possibile concepire fino ad ora. Se il messaggio del medium, secondo McLuhan, sta nella portata del cambiamento introdotto dal medium stesso, dunque il puzzle rimanda al pubblico (sconfinando dall’universo diegetico in quello extra-diegetico) un messaggio sulla possibilità della liberazione di nuovi istinti, nuovi piaceri, nuove logiche di percezione dell’essere umano e della propria identità al di fuori di datati stereotipi culturali.
Ma è anche un medium per l’incontro con l’oscura divinità del Leviatano; attraverso la successione delle configurazioni da completare che garantiscono l’udienza (vita, conoscenza, amore, sensazione, resurrezione, potere) vengono suggeriti la riscoperta, la presa di coscienza, e l’empowerment del sé nella definizione della propria identità e del proprio destino.
Il fratello della protagonista intrattiene una relazione omosessuale socialmente accettata; Riley, modello aggiornato di final girl, manca del classico aspetto avvenente, ma appare piuttosto scarmigliata e derelitta, assumendo allo stesso tempo le competenze del personaggio maschile. È lei ad avere successo nella prova di forza per abbattere con una martellata la serratura della cassaforte, laddove il partner Trevor fallisce. Ed è sempre lei che più tardi lo penetrerà col puzzle nella configurazione del potere (ovviamente associata al genere maschile tramite una configurazione fallica).
L’interpretazione dell’iconico mostro Pinhead da parte dell’attrice transessuale Jamie Clayton parla proprio di una liberazione da tutte le distinzioni e dalle logiche di genere. Il cranio interamente coperto di spilli della figura, che tenta di mantenere, o forse liberare, una qualche connotazione femminile, sembra echeggiare un altro caso esemplare di sensuale androginia nelle sembianze di Alla Nazimova col suo eccentrico copricapo in Salomé (1923; Id) di Charles Bryant.
I grotteschi ma affascinanti cenobiti, ancora più androgini delle precedenti incarnazioni (emblema per niente celato di una fluidità di genere incipiente), non sono più i villain, funzione attanziale verso cui si erano trasformati nel corso della serie, ma tornano ad essere solamente “Esploratori delle regioni più remote del piacere. Demoni per alcuni, angeli per altri”, come si definivano nel film originale, neutri da un punto di vista della dicotomia bene-male. Creature guidate dall’esclusiva ricerca del piacere più estremo e del dolore più profondo.
Per certi aspetti quest’ultimo Hellraiser è proprio un ritorno alle origini (cinematografiche) di una vicenda che parlava del desiderio di infrangere delle barriere, per muovere verso il futuro infrangendone altre (quelle dei discorsi disciplinari che regolano la società contemporanea), che pare volerci parlare, in un intreccio tra mondo narrativo e mondo reale. Il ruolo del villain è piuttosto assunto da Adrian Voight, che persegue i doni promessi dal puzzle alla ricerca di nuove sensazioni e nuovi tipi di piacere. Avendo esperito ogni possibile sensazione umana, si ritrova ormai, come suggerisce il nome (Voight = void) svuotato sia della capacità di provare godimento in qualunque piacere alla sua portata sia nella necessità di ricercare nuove e soddisfacenti esperienze, valicando i confini dell’umanamente concepibile.
Sebbene ciò sembri contraddire il messaggio del film, sembrando un monito alla ricerca della propria identità e alla liberazione del piacere, il sacerdote Pinhead chiarisce che quello che Voight ha ricercato nel corso della sua esistenza non sono il piacere e le sensazioni insite ad esso, ma il potere che le sussume, presupposto che lo condurrà al pericoloso destino di mutazione in cenobita. La sequenza finale della metamorfosi di Voight, disposto in croce in un misterioso aldilà dalle estatiche (o indicibili) visioni, sembra suggerire un nuovo avvento, auspicare l’arrivo di una nuova epoca di apertura e accettazione verso ogni possibile percezione e trasformazione delle logiche di genere.
Non è più il tempo di nascondersi, di evitare di compiere scelte in base a ciò che si desidera per sfuggire a una morale imposta da tradizioni religiose e secolari. Si può ed è necessario fare una scelta. È addirittura inevitabile, come per Riley, che, rinunciando a selezionare una qualunque delle ricompense offerte dai cenobiti per aver completato tutte le configurazioni del puzzle, finisce comunque per compiere una scelta. Ogni individuo è mosso da desideri e piaceri diversi, ciò che conta è capire ciò che si desidera, esserne consapevoli, liberi da interferenze e costrizioni dettate dalla società e da una morale decadente. Così come il sinistro commerciante nell’originale del 1987 interrogava i suoi acquirenti prima di vender loro il diabolico puzzle (quesito riproposto in questa iterazione come semplice citazione cinefila postmoderna): “What’s your pleasure?”.
Hellraiser; regia: David Bruckner; sceneggiatura: Ben Collins, Luke Piotrowski, David S. Goyer; interpreti: Odessa A’zion, Jamie Clayton, Adam Faison, Drew Starkey; produzione: Hulu; distribuzione: Hulu; origine: Regno Unito, Serbia, USA; anno: 2022; durata: 121’.