È costruito sul volto e sul corpo della sua protagonista, l’intimo Hannah (2017) di Andrea Pallaoro. Charlotte Rampling sembra avere la possibilità di porsi all’interno di una tradizione attoriale in cui l’indagine della nevrosi femminile appare come motivo di ricercatanto del rumore quanto del silenzio; in cui la recitazione del personaggio sa offrirsi allo sguardo attraverso un instabile equilibrio tra esibizione e sottrazione del visivo. La sua recitazione è una recitazione del silenzio, della contrazione del volto, della spoliazione del gesto, del silenzioso adattamento al tempo, al fluire monotono e silenzioso del tempo, quando l’impressione della durata è percepita anche grazie all’uso quasi costante dell’inquadratura fissa. La sua recitazione, come già osservato nella sequenza finale di 45 anni (Haigh, 2015), solo così può però permettersi l’improvvisa violenza, attuata anche con un gesto minimo che altrimenti non acquisterebbe quel suo peso specifico. Una violenza che, in Hannah, giunge alla saturazione nella sequenza della toilette.

Eppure, ancora una volta, è la macchina da presa a scoprirsi significante dell’immagine. Nella sequenza citata, il volto di Hannah cede, affonda sotto la superficie dell’inquadratura, sembra non poter essere né osservato da vicino né scrutato attraverso la freddezza della distanza: il suo volto sfugge alla stessa inquadratura, ne rappresenta il décadrage; il rossore della pelle, le grida, i pianti ricercano in modo spasmodico una fuga, disperata nella sua volontà di sottrarsi; nello spazio ristretto della toilette, l’inquadratura non può che definire la prossemica dell’immagine con un ritmo incerto. Pallaoro, dunque, tenta continuamente di ricostituire un gesto cinematografico, sia come presenza sia come assenza: come fragile espressione di un potente sentimento interiore. Del resto, le due tipologie performative di cui parla Nacache «sono in profonda interazione, in quanto non bisogna separare la narratività del gesto dagli affetti corporei» (Nacache 2012, p. 183).

La figura costruita dagli autori del film si lega dunque al passato cinematografico in una fantasmatica sequenza di volti femminili la cui fragilità, di volta in volta, il cinema ci ha fatto osservare per, subito, poterla offuscare, renderla imperscrutabile, silenziosa, nascosta: la potenza espressiva del volto, la presenza analitica della macchina da presa, l’enunciazione di un discorso intellettuale che discute ciò che è reale e ciò che è immaginario, sono aspetti che possono far pensare in termini generici al cinema di Bergman; lo sguardo esibito e negato assume allora la stessa instabile ritrosia dei personaggi interpretati da Gena Rowlands in Una moglie (Cassavetes, 1974) o da Geraldine Page in Interiors (Allen, 1978). Altri titoli sono stati accostati al film: Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles (Akerman, 1975), ad esempio. La tradizione estetica, figurativa e narrativa in cui il film s’inserisce, allora, se potrebbe forse enunciare il suo manierismo, viene invece tradotta attraverso un’espressione tanto fragile quanto penetrante. Rimane fragile, Hannah, proprio perché è un film sullo sguardo negato, sulla riduzione di ciò che si pensa di poter affermare e giudicare. La sua espressione è la coscienza del suo limite, o, perlomeno, del limite dello sguardo, lo sguardo del cinema, lo sguardo dello spettatore. La parola, dunque, che caratterizza Hannah è quella del pudore: più che ad una tradizione narrativa assistiamo quindi ad una dédramatisation della stessa.

Gli stessi movimenti di macchina significano sempre un arresto, un ostacolo, un motivo di negazione; cifra spinta da un profilmico contrastante. La macchina da presa, ad esempio, segue Hannah nel suo percorso verso il bidone delle immondizie, dove la donna getta il bouquet di fiori: e ci si arresta, lontano da lei, dietro di lei; la lenta discesa dell’inquadratura avviene, sembra, per un solo scopo: l’unico stimolo visivo in movimento era dato dalla luce intermittente del lampione; la macchina da presa si abbassa, la luce del lampione scompare, e solo allora il quadro appare fermo, vuoto.

Lo stesso vale per il suono: non solo per la mancanza di musica extradiegetica, ma per la descrizione di una sequenza iniziale, quando Hannah e il marito stanno pranzando, in silenzio: l’unico suono è rappresentato dalla televisione, ossia, in quel momento, dall’unica possibilità dell’infiltrazione del mondo esterno; il suono viene soffocato premendo il tasto che lo rende muto. Infine, il fuoricampo quale negazione del visibile. In esso, la presenza inafferrabile del tempo: quando la macchina da presa si aggira in casa, si scopre la presenza del riflesso di un orologio; ci si sposta, il riflesso scompare, l’oggetto appare; ci si sposta ancora, scompare l’orologio, ma, di esso, rimane il ticchettio delle lancette. D’altronde, le ellissi, i piani fissi, i lenti movimenti, il fuoricampo, il silenzio, il vuoto visivo, sono tutti elementi di una sintassi del tempo, e di un décalage dello sguardo.

In termini narrativi, lo stesso motivo perspicuo che informa l’intero film non è che una mancanza: l’infanzia, come tema della mancanza. Le foto che Hannah scopre dietro all’armadio, che le rivelano la colpa, o il desiderio, del marito, vengono negate allo sguardo dello spettatore; e veniamo a conoscenza della pregnanza diegetica delle foto solo successivamente, e solo attraverso la parola, non attraverso la visione. Comunque, il loro contenuto rimane oscuro. Perfino quando la macchina da presa si concede all’esterno, al campo lungo nella spiaggia in presenza della balena arenata, la visuale è in realtà impedita: verso il mare, dall’ostacolo rappresentato dal muro della banchina; verso la città, dalle sagome dei grattacieli che si impongono allo sguardo, e lo occludono.

Il passaggio possibile dunque sembra essere quello tra interno ed esterno. L’altrove, per Hannah, è infatti rappresentato dalla casa della signora presso la quale lavora come domestica: una casa che rappresenta il passaggio alla luce, agli interni spaziosi, all’arredamento moderno. Nell’appartamento esterno, Hannah trova soprattutto la presenza che prima le mancava: quella del bambino. I gesti dolci, materni, che Hannah riesce a compiere, sono rivolti a lui: gli accarezza i capelli, il bambino si addormenta sul suo grembo. Eppure, come per il nipote, il cane, il marito, anche per quel bambino ad Hannah non rimane che un saluto, un saluto che sembra definitivo. Lo stesso appartamento rivela, in effetti, il suo motivo non di rottura, ma di continuità con l’alienazione interiore della protagonista; la serie dei gesti, che diventano pesanti, gravi, come quello di spazzolarsi i capelli, o di lavare il cane, è una serie che si ripercuote anche qui: assume violenza, il gesto di sfregare il vetro per pulirlo dallo sporco.

Sono proprio i vetri, allora, ad assumere il segno di un riflesso invisibile, a spingere lo sguardo verso una nuova, possibile, visione: a partire dalla capacità palindroma, autoriflessiva, del nome della donna e del titolo del film. In concreto, in un climax immaginario: il vetro opaco nella sala da bagno che occlude la vista; il vetro della metropolitana, in cui vediamo ciò che Hannah vede, e lo vediamo dietro di lei, mentre lei guarda, seduta, ferma; il vetro dell’automobile, dove la realtà esterna, riflessa sul volto di Hannah, sembra scivolarle addosso; e infine, la superficie dello specchio: proprio nell’appartamento del bambino, l’immagine di Hannah, quando vi appare per la prima volta, è scissa, riflessa nello specchio posto accanto alla porta d’entrata. Sembra inizialmente difficile distinguere l’immagine di Hannah da quella del suo riflesso.

Ritorniamo dunque alla dialettica inscindibile tra reale e immaginario, al concetto metacinematografico che ogni film sottende, forse dolorosamente, forse, invece, in quanto possibilità di rigenerazione, di rinnovamento, di rielaborazione linguistica, culturale, psichica: il segno cinematografico come equilibrio tra introiezione e proiezione. L’equilibrio tra immaginario e reale, dunque, è costituito dal cinema: Hannah, dietro ad un vetro, è spettatrice di una ripresa cinematografica in esterni, quando della finta neve viene diffusa attorno al set. In un’altra sequenza, Hannah si allontana sotto i fiocchi di una nevicata. Hannah sembra così proiettata nella sua esternazione del disagio: attraverso la finzione, però, Hannah scopre se stessa; perplessa di fronte al mondo. Secondo Jacques Lacan,

La mancanza a essere costitutiva dell’alienazione si installa riducendo questa al desiderio […], perché occupa il suo posto per mezzo di quell’incarnazione del soggetto che si chiama castrazione […]. È questo il vuoto così scomodo da accostare […]. L’importante è accorgersi che [gli oggetti] detengono questa funzione nel desiderio solo se vi vengono percepiti come solidali con quella scissione […] in cui il soggetto appare a se stesso in quanto diade (Lacan 2013, pp. 320-321).

 

Infine, il piano-sequenza che conclude Hannah diviene sintesi del discorso: tale figura sintattica, infatti, significa nel contempo presenza e assenza, immersività e mancanza, introiezione e proiezione. Quando poi Hannah entra in metropolitana, la macchina da presa si arresta sulla banchina, e il piano-sequenza diviene fisso, impotente. Hannah scompare dietro alle fasce di plastica nera della porta del mezzo sotterraneo. La metropolitana parte, e la macchina da presa è sempre fissa. Mentre il veicolo scorre, dietro al vetro della porta, Hannah riappare. Il film si conclude, il film prosegue.

Riferimenti bibliografici
J. Lacan,  Altri scritti, Einaudi, Torino 2013.
J. Nacache, L’attore cinematografico, Negretto, Mantova 2012.

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