La parabola intellettuale, gnoseologica di Italo Calvino – in uscita dai nidi del Neorealismo, verso forme di rappresentazione fantastiche, cosmogoniche, anzi cosmocomiche – è rappresentativa di un modo di intendere e utilizzare il linguaggio, il segno, che non può prescindere dalla dimensione visuale, immaginativa integrandosi ad alcune delle estetiche, delle filosofie più importanti del Secondo dopoguerra. Del resto già i personaggi e la vicenda de Il sentiero dei nidi di ragno trascendono il discorso neorealista verso qualcosa di icastico e avventuroso.
Sono le connotazioni strambe, quasi fiabesche del distaccamento partigiano in cui Pin si ritrova ad agire (e a sopravvivere), cantilenando, canzonando «quella storia di sangue e corpi nudi che è la vita degli uomini»: cuochi con uccello sulle spalle come in un libro di pirati (ma al posto di un pappagallo qui c’è il falco accoccolato sulla figura mencia, mortificata di Mancino); capitani maledetti, consumati dalla fatica della guerriglia eppure ancora capaci di bramare una donna; il manipolo randagio, rognoso di cognati calabresi; il Cugino, possente, bonario; l’intrepido Lupo rosso, ecc. Tutto un repertorio di personaggi stilizzati, balzani, che sembrano usciti da un libro d’avventura (e vi rientreranno, a partire dal Visconte dimezzato) piuttosto che da un romanzo resistenziale; o da un film che accolga, per forza di cose (per forza icastica di cose), la forte spinta stilizzante e connotativa calviniana: qualcosa come un Capitan Blood di Curtiz, l’altro mondo eretto dal vecchio cinema americano verso cui Calvino si sente incline.
Ecco, il cinema per l’appunto, presenza costante, rigenerante nell’esperienza dello scrittore ligure, ma anche possibile fonte di ispirazione per registi, sceneggiatori, scenografi; tant’è che, entrando non casualmente nel genere (e poi, in qualche modo, nel postmoderno) e lambendo il nostro tempo, viene da pensare a un film come Freaks Out e da chiedersi se la banda di partigiani fantastici, freaks di Mainetti, non siano i diretti, perfetti discendenti di Dritto, Giglia, Mancino e tutti gli altri. Ora, questa propensione iconologica, contemplativa della poetica calviniana è al centro di un volume uscito per Mondadori a cura di Marco Belpoliti, il quale, come spesso accade, com’era accaduto ad esempio in Pasolini in salsa piccante, assume una prospettiva obliqua sull’opera, sull’autore, un guardare a sua volta, un traguardare da altre angolazioni, che rischiara più ampi tratti dell’ecosistema, dell’azione dello scrittore in questione.
Si tratta di Italo Calvino, Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, una raccolta di scritti pubblicati nel corso degli anni su riviste, quotidiani, volumi che, accanto alla produzione narrativa, definiscono l’estetica calviniana, un’ottica specifica cui «punto di partenza è sempre l’immagine; la narrazione che ne deriva sviluppa poi una logica interna all’immagine stessa, fino ad arrivare a quella che [Calvino] definisce “contemplazione”» (Belpoliti in Calvino 2023). Per lui guardare corrisponde a essere nel mondo, come precisa in una lettera a François Wahl: «Quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro». Ne deriva il metodo calviniano da lui stesso illustrato nella lezione sulla Visibilità: osservazione del mondo, trasfigurazione, poi l’astrazione di questa materia immaginale che introduce l’elemento geometrico (già i nidi dei ragni evocavano le linee di un reticolato, una forma, uno schema entro cui tentare il riparo rispetto all’informe della vita).
Da qui si giunge alla condensazione, il passaggio da uno stadio all’altro del visuale e all’interiorizzazione che dà un segno, anzi un disegno, un indirizzo specifico alla narrazione e al pensiero. Le varie occasioni del visibile, le potenzialità offerte dalla materia iconografica, magmatica, giacente, anzi ribollente al di là del visto, trovano declinazione nella narrazione di Calvino, ma anche negli scritti di critica, soprattutto quelli riguardanti la fotografia, l’arte figurativa e il cinema. Emerge l’imperio della superficie, di una regola della superficie: si direbbe una visagéité che, anche nei termini deleuziani, sembra trascendere il tratto specifico e, nelle pieghe, nella pratica dell’immaginario calviniano implica anche il tegumento o semplice epidermide dei volti delle dive oscillanti tra realtà e astrazione.
Questa regola da una parte espunge dall’orizzonte dello scrittore il tema della profondità psicologica, dell’io («come scriverei bene se non ci fossi! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona!»), dall’altra introduce la tensione metalinguistica, il segno al centro dell’esperienza del segno: le superfici dei significanti che si estendono a forza di descrizioni, fino ad astrarsi nel disegno del cosmo, come nelle Cosmicomiche e specialmente in Un segno nello spazio in cui si verifica l’ossimoro di una vertigine razionale, aritmetica. È l’introduzione di quell’elemento geometrico (costruttivo) che per Calvino è complementare al librarsi, all’anarchia della fantasia, così come, al suo interno, all’estensione della superficie linguistica (di cui diventa segnacolo, pietra miliare) e alla teoria (ipostasi) di queste superfici.
Venendo meno l’identità forte dell’io pensante (per cui, nella lezione sull’Identità viene definita come «un fascio di linee divergenti che trovano nell’individuo il punto di intersezione»), si eclissa anche l’ideologia attraverso cui tradizionalmente leggere la realtà. Citando Belpoliti: Calvino «legge piuttosto la possibilità di leggere la realtà» (2023), al di là di un filtro ideologico stabile che non sia la teoria (appunto la possibilità di leggere), la struttura (metastruttura) della propria scrittura di superficie. E in effetti in un articolo del 1957, Sciolti dal giuramento uscito su “Cinema nuovo”, scrive qualcosa di essenziale alla comprensione non solo dell’estetica calviniana, ma anche di alcune delle maggiori ermeneutiche della seconda metà del Novecento: «Tutte le poetiche possono essere buone, ma devono essere modi di “vedere” la realtà». È per questo motivo che, pur esprimendo la predilezione per il cinema americano degli anni trenta – un cinema avventuroso, fantastico: cinema dell’alterità, della «distanza» rispetto all’incongruenza della realtà – Calvino riesce ad apprezzare e a mettere in relazione dialettica poetiche diverse: dal Neorealismo (di cui però non sembra cogliere l’aspetto teorico) a Luigi Zampa, a Fellini, al western all’italiana, fino a Bellocchio, Buñuel ecc.
Sembra esserci uno iato tra l’esperienza di spettatore, a cui Calvino è più legato, essendo la dimensione della propria infanzia, ammantata delle fantasticherie suscitate dal cinema americano di quegli anni e della spettrale, carnale visagéité divistica; e quella di critico cinematografico che per lui è una sorta di deontologia, una pragmatica attinente alla funzione intellettuale, e da cui scaturiscono alcune inferenze di grande acume critico. Sono soprattutto gli scritti a partire dalla seconda metà degli anni sessanta – quando la gnoseologia calviniana si perfeziona accentuando la riflessione teorica – ad avere un certo rilevo: nell’aprile del 1966 su “Rinascita” esce una recensione dei Pugni in tasca, talmente esatta, aritmeticamente stratificata, che potrebbe valere come recensione all’ultimo Bellocchio.
Se ne rileva «un naturalismo quasi atemporale», concentrato – in cui l’ambiente è emblematico, marcato nelle sue connotazioni, elevandosi ad habitat tipico della tragedia – tanto da diventare «tour de force stilistico». Mentre il cinema di Buñuel rappresenta per Calvino il vertice del Surrealismo, condotto al di là dell’automatismo e del culto del caso bretoniano o della «magniloquenza spettacolare nell’uso dell’arbitrario come in Salvador Dalì» o ancora della «coloritura sfarzosa d’una trasfigurazione della poeticità popolare, come in Garcia Lorca». Quello di Buñuel, secondo un procedimento di analisi una volta di più geometrico, è «un partire sempre dal semplice e dal terra-terra per farti trovare sbalestrato nel vuoto».
Di Fellini invece, nell’introduzione a Quattro film, coglierà la tensione, anzi l’ossessione autobiografica trasfigurata nel barocchismo dell’immagine, nel lavorio continuo sui segni, sulla loro prolificità, «che dal caricaturale porta al visionario». «In lui la biografia è diventata cinema a sua volta, è il fuori che invade lo schermo, il buio della sala che si rovescia nel cono di luce». Del resto la propensione felliniana all’autobiografia è anche quella di Calvino, descritta, anzi raccontata in quanto avventura infantile e adolescenziale nei pomeriggi di Sanremo: riparo nei cinema, nell’«altro mondo» dei film, o in una fusione, effusione poetica, tra quello che accadeva sullo schermo e il mondo quotidiano, quando nel più importante cinema cittadino, nell’intervallo tra primo e secondo tempo (peraltro così esecrato perché interrompeva la continuità della trance), s’apriva una «cupola metallica, al centro di una volta affrescata a centauri e ninfe» e compariva così il firmamento inglobante «tutte le lontananze in un solo universo». «La vista del cielo introduceva in mezzo al film una pausa di meditazione, col lento passare di una nuvola che poteva pur giungere da altri continenti, da altri secoli».
Riferimenti bibliografici
I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, prefazione a F. Fellini, Quattro Film, Einaudi, Torino 1974.
Italo Calvino, Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, a cura di M. Belpoliti, Mondadori, Milano 2023.