La vittoria di un premio è prima di tutto una soddisfazione: per chi lo ottiene e per chi nel suo gesto – artistico, atletico, scientifico, ecc. – si identifica. Questo articolo inizia dunque con un duplice rifiuto: tanto nei confronti del sentimento di orgoglio nazionale nella notte degli Oscar che avrebbe premiato l’Italia; quanto della postura dello “straniero in patria”, di per sé stanca, a maggior ragione in un contesto in cui i termini “patria” e “straniero” risultano tanto più anacronistici quanto più vengono utilizzati nel dibattito politico, elettorale e (ormai) post-elettorale. Ma è proprio dall’idea di cinema nazionale che bisogna partire, per poi tornarci, ancora, in conclusione.

Come sappiamo, Chiamami con il tuo nome (2017) del regista italiano Luca Guadagnino – vincitore dell’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale – non era candidato come migliore film straniero e non rappresentava in senso stretto l’Italia in tale concorso. Prodotto da Peter Spears e Howard Rosenman e distribuito da Sony Picture, il film è uscito dapprima negli Stati Uniti e in Regno Unito, suscitando un grande successo di pubblico e di critica, e solo successivamente in Italia. Il cast è internazionale, come internazionale è anche buona parte della troupe. Statunitense è del resto l’autore della sceneggiatura: James Ivory, premiato per la prima volta con l’Oscar dopo una lunghissima carriera. (Il film proposto per rappresentare l’Italia agli Oscar del 2018 era del resto A ciambra (2017) di Jonas Carpignano – anch’esso strettamente legato al contesto produttivo statunitense – di fatto scartato prima di entrare nella shortlist del premio).

Forse anche a causa di tali dettagli, il dibattito degli ultimi mesi attorno a Guadagnino sembra essersi interamente concentrato sulla sua italianità. Abbiamo assistito all’avvicendarsi delle posizioni di sostenitori e detrattori. Abbiamo sentito ripetere infinite volte aneddoti come quello riguardante il maestro del cinema pulp Quentin Tarantino che guarda i film di Guadagnino e si commuove, mentre in Italia quest’ultimo tende a essere perlopiù ignorato: dalla critica e dai colleghi, se non anche dal pubblico. Abbiamo dunque assistito ad alcuni mea culpa, a qualche cambio di opinione, a rivendicazioni di ostilità.

Nemo propheta acceptus est in patria sua. Ecco che l’idea di patria inevitabilmente ritorna, proprio a proposito di un regista e di un film che è stato concepito come un’operazione globale e che, formalmente, non ha rappresentato nessuna patria nella kermesse di Hollywood.

Forse sta proprio qua il punto. Se Chiamami con il tuo nome ha fatto tanto discutere non è tanto in nome della storia d’amore che racconta, quella di Elio e Oliver – adolescente proveniente di una famiglia poliglotta e altoborghese il primo, post-dottorando statunitense in gita in Italia il secondo – che si incontrano e si amano nella campagna di Crema, nella prima metà degli anni Ottanta. Se ha fatto discutere, suscitando opinioni diverse, è proprio in virtù di questo suo raccontare l’Italia da una posizione difficilmente collocabile, né esterna, né interna. Né collocata nell’oggi né nel passato storico al quale pure, a tratti, sembra volersi riferire (i manifesti elettorali del partito di Bettino Craxi e il cameo televisivo del comico scatenato Beppe Grillo).

A ben vedere, per quanto preso all’interno di tale campo tensivo tra interno ed esterno, lo sguardo di Gudagnino non è neppure “straniante”, come di solito sono i grandi sguardi di cinema. Quello di Chiamami con il tuo nome è piuttosto qualcosa di unheimlich: perturbante. Un’Italia “quasi conosciuta”, “quasi familiare”, se non fosse che tale approssimazione finisce per rovesciare il sentimento di familiarità nel suo opposto, fino a suscitare inquietudine.

Dalle prime inquadrature, mentre scorrono i titoli di testa, si assiste a una serie di dettagli fotografici di statue d’epoca romana. Dettagli di folgorante splendore che prefigurano due aspetti fondamentali della trama del film. Il primo, più banale, riguarda la specializzazione del padre di Elio, il prof. Perleman, e del post-dottorando Oliver: umanisti ed archeologi, prenderanno parte ad alcuni recuperi di preziosi reperti. Il secondo ha a che fare con il tema della bellezza e della sensualità in quanto strettamente ispirate da una vocazione intellettuale: il corteggiamento tra Elio e Oliver, il loro amore che esplode nella calura pomeridiana, l’intrecciarsi dei loro corpi.

Nella sequenza iniziale del film, così come in quella del recupero di una statua dalle profondità del Lago di Garda, l’archeologia è pensata in rapporto al desiderio e alla vitalità dei personaggi. Ma tale possibilità d’incontro e d’innesto tra l’arte e la vita tende perlopiù a coincidere con una conformazione della seconda all’aura della prima. Ancora di più, durante lo svolgimento del film, la dimensione artistica e intellettuale tende a essere concepita come intensificazione delle sensibilità individuali che spinge i soggetti verso una sensualizzazione dei propri corpi e del paesaggio stesso, fino a quando le pesche, le albicocche e la natura tutta diventano oggetti del desiderio allo sguardo di Elio.

In un articolo pubblicato su Internazionale all’uscita del film nelle sale italiane, Ida Dominijanni ha proposto una critica tanto interessante quanto entusiastica. La filosofa ha messo in evidenza la capacità di Guadagnino di far lavorare insieme «empatia, passione e sapere» e ha sottolineato l’importanza del tema del desiderio all’interno del film. «Come diceva Deleuze – scrive Dominijanni – è sempre con il mondo che facciamo l’amore». E conclude sostenendo che «Nella geo-filosofia del cinema mondiale brilla una stella, è nata a Palermo, gira nel mondo e noi facciamo il tifo perché brilli a lungo e di più».

“Chiamami con il tuo nome, io ti chiamerò con il mio”, dice Oliver a Elio. È questa una possibile immagine del divenire altro da sé – dell’uno nell’altro – in quanto caratteristica fondamentale dell’incontro amoroso. Ma quello che rischia di sfuggire in tale ripresa del pensiero di Deleuze e Guattari è che il mondo immaginato da Guadagnino tende a coincidere da subito con una serie di motivi iconografici, letterari e musicali – per non dire economici, sociali e politici – che gravano sulla narrazione senza essere mai, veramente, messi in discussione o sottoposti a una dialettica.

A ricomporre da subito il possibile “scandalo” dell’amore tra due uomini è il fatto che l’emissione di “segni” amorosi da parte dei due ragazzi tende a prodursi secondo codici pienamente corrispondenti a un repertorio colto, ben sedimentato. Anche nelle sequenze campestri – nel luogo rizomatico per eccellenza, dove l’ape si perde nel fiore –, quando i due ragazzi testano le possibili posture del desiderio, l’eco posturale della statuaria e il mito paesaggistico del Belpaese – una forza languida – hanno comunque il potere di incorniciare e predeterminare la bellezza del loro incontro. Si tratta del resto di un paesaggio dal quale spuntano o nel quale si parcheggiano, con estrema naturalezza, lucidissime Vespa e Alfa Romeo sagomate, oggetti anch’essi archeologici di un passato recente, sul quale ancora si fonda l’idea di design italiano.

È così che il rapporto tra parola e immagine, così come quello tra design e gesto, tra arte e vita, sembra in molti casi tendere verso una forma di decadentismo e, anche quando passeggiano in bicicletta tra comuni campi di grano, i due ragazzi finiscono per muoversi come “poeti laureati”, «fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti».

Da dove guarda, Guadagnino, l’Italia? Da dentro o da fuori? Da quale prospettiva, da quale punto di vista? Senza voler proporre paragoni improbabili e ben difficili da sostenere per qualsiasi autore contemporaneo, è tuttavia possibile rivolgersi al passato, ad alcune immagini dell’Italia proposte da grandi registi nazionali e internazionali. Procedere per esclusione.

La sua non è l’Italia di Vacanze Romane (1953) di William Wyler, così come non è quella di Belli e dannati (1991) di Gus Van Sant, né coincide minimamente con quella di Clint Eastwood che, con il suo film più recente, sembra aver voluto sciacquare i suoi panni nel Tevere. Ma, d’altra parte, la tendenza dello sguardo di Guadagnino sulla Penisola non è neppure paragonabile a quella dei registi italiani che, dopo aver conosciuto il successo internazionale, si sono concessi il lusso di osservare il proprio paese da fuori, gonfiandone magari i connotati, così da favorirne la circolazione atlantica. Non ha sicuramente niente a che vedere con quello di Antonioni, da subito orientato a ragionare su scala europea e internazionale e a concepire l’opera d’arte come una pratica di attraversamento dei confini, nonché come una sfida alle nozioni stesse di “Italia”, di “straniero” e di “patria”. Ma non è non è neppure l’Italia – che tanto ha suscitato entusiasmo oltreoceano, di maestri come Fellini o Bertolucci – del quale pure si avverte chiaramente la lezione, quantomeno di Io ballo da sola (1996).

Nella geo-filosofia del cinema mondiale, Guadagnino sembra incarnare meglio di ogni altro regista italiano un’idea utopica di “global cinema”, dove il punto di vista statunitense mantiene la sua egemonia, ma già si intuisce la sfida del Pacifico o la riapertura della via delle Indie. Proseguendo il lavoro iniziato con Io sono l’amore (2009), Chiamami con il tuo nome ha dunque il merito di indicarci con chiarezza qual è il ruolo che tende ad assumere l’Italia all’interno di tale cartografia delle emozioni, all’interno di tale geografia dei fondali. Un ruolo che ci riporta indietro di almeno un secolo, tra piante e frutti dai nomi poco usati: pesche percoche, bossi ligustri o acanti. L’Italia, questo sensuosissimo Paese.

 Riferimenti bibliografici 
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, tr. it. Einaudi, Torino 2014.
S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia 2002.
R. De Gaetano, Tra-due. L’immaginazione cinematografica dell’evento di amore, Pellegrini, Cosenza 2008.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, tr. it., Einaudi, Torino 2002.
G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it., Castelvecchi, Roma 2006.

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