Tutte le più recenti e autorevoli discussioni sui media sembrano andare in direzione di una progressiva riformulazione dell’idea stessa di medium. Ciò accade anche nella tua riflessione con il passaggio dall’idea di rimediazione a quella di premediazione, fino alla più recente tesi di una “mediazione radicale”. Alla luce di questo, vorremmo partire dalla messa a fuoco del concetto di medium per come esso si sta riformulando negli ultimi anni. Cos’è un medium oggi?
Per me ci sono diverse definizioni di medium che, sotto alcuni aspetti, sono correlate. Almeno in inglese, si ricorre all’uso della parola “medium” – non so se sia così anche in italiano – per dire, ad esempio, «The fish lives in the medium of water» oppure «Air is the medium in which we breathe». Quindi in inglese una prima definizione di medium è quella di ambiente, ed è un uso significativo. L’altra è quella secondo cui il medium è un dispositivo, uno strumento di comunicazione, che ci connette reciprocamente, per cui il medium è qualcosa che si frappone tra due poli; usiamo, ad esempio, un “medium” della rappresentazione, se vogliamo esibire un’immagine del mondo, oppure usiamo il linguaggio come medium se vogliamo parlarci l’un l’altro. In questa seconda definizione il medium è un dispositivo della connessione. Ciò che provo a suggerire in Radical mediation è che la seconda nozione di medium coincide con la nozione generalmente accettata di mediazione, secondo cui la mediazione è qualcosa che, appunto, ci connette e ci riunisce attraverso un medium (che può essere la stampa, il film, la fotografia). Tuttavia c’è ancora un’altra definizione di medium, quella per cui il medium è ciò che è ovunque: il medium non è soltanto l’aria che respiriamo o l’acqua in cui vive il pesce, ma il nostro stesso corpo è un medium, attraverso cui interagiamo. Per me, e storicamente nell’uso della lingua inglese, il medium è innanzitutto qualcosa, appunto, come l’acqua, l’aria, un ambiente, ed è solo con lo sviluppo della stampa e della fotografia che è diventato lo strumento che usiamo, qualcosa in cui noi mettiamo idee o parole.
In questa stessa accezione, possiamo comprendere l’affermazione di McLuhan, secondo cui l’elettricità è un medium.
Esattamente, per McLuhan i media sono gli ambienti in cui viviamo. Anche lui è uno studioso di lingua inglese, quindi, anche linguisticamente, la sua idea dei media è coerente con la prima definizione di medium di cui ho parlato.
Se dunque consideriamo il medium o i media nel modo appena descritto, come forma del “tra”, origine dalla quale scaturisce ogni possibile relazione, dobbiamo anche ripensare i media nell’accezione tradizionale del termine. Nella tua teoria rintracci nell’evento epocale dell’11 settembre la miccia che ha innescato il passaggio da un fenomeno come quello della rimediazione (che giustificava ancora l’idea di un confronto dialettico fra vecchi e nuovi media) a quello di premediazione, in cui invece questa idea sembra ormai quasi del tutto inutile alla comprensione del panorama mediale contemporaneo.
Rimediazione è un concetto più ampio di premediazione: Bolter ed io sosteniamo che tutti i media rimediano altri media e quindi non c’è mediazione che non sia già una rimediazione. Sotto un certo profilo, quindi, mediazione e rimediazione significano la stessa cosa, fatta eccezione per il fatto che la rimediazione enfatizza i processi di citazione, di remix e di campionatura. Ciò che cerco di sostenere con Premediation è che la premediazione è la forma predominante che la rimediazione assume dopo l’11 settembre. In tal senso, periodi storici diversi si caratterizzano per forme di rimediazione diverse: per esempio, per un certo periodo, nella tv in real time si incarnava un interesse diffuso per il presente, per il qui e ora, per l’immediatezza. La premediazione diventa la forma che la rimediazione assume dopo l’11 settembre, in larga parte a causa di quegli eventi terroristici; si tratta di un processo iniziato già tempo prima, sebbene non fosse visibile a livello popolare. L’11 settembre non è un punto di rottura, ma il momento in cui si può cogliere con più facilità come certe logiche culturali diventino dominanti, logiche che hanno certamente a che fare con il terrore, con lo shock prodotto da quell’evento, ma anche con le tecnologie capaci di raccogliere dati, estrarre informazioni per identificare modelli, e usare questi modelli per gestire il rischio. La premediazione ha a che fare con la gestione del rischio. Quando hai le tecnologie che te lo permettono, allora queste cominciano a funzionare anche in altri campi. Pensiamo alla medicina: oggi riguarda principalmente il futuro e la possibilità di prevenire malattie e danni, analogamente a quanto fanno le news cercando di anticipare un prossimo evento catastrofico. Certamente vai dal dottore quando hai già un sintomo, come certamente le news coprono anche eventi passati, tuttavia basta un esame del sangue per scoprire che hai un valore alterato e che questo valore può portare a una malattia e a ulteriori rischi futuri. Non so come funzioni in Italia, ma negli Stati Uniti le persone assumono medicinali in virtù di questi dati e per prevenire qualcosa che potrebbe accadere in futuro. È lo stesso meccanismo legato anche al discorso sul cambiamento climatico: abbiamo queste tecnologie che rimediano dati passati, elaborano modelli e sulla base di tali modelli, ricavati attraverso degli algoritmi, vengono prescritte nuove regole comportamentali, sebbene la gente sia molto più incline a seguire le prescrizioni dei medici che non quelle dei climatologi. Ritengo, dunque, che stiamo assistendo ad un cambio di paradigma molto interessante.
È significativo che entrambi gli esempi che fai enfatizzino l’importanza politica del medium, inteso anche come ambiente, e non soltanto come strumento. Qual è il rapporto tra la creazione di uno spazio politico e l’ambiente mediale?
Se ci mettiamo nella prospettiva di storicizzare tale questione molto importante, possiamo osservare che i giornali o la radio sono media che nel XX secolo venivano usati anche per scopi politici. Hitler e Mussolini usavano la radio, e naturalmente il cinema, Franklin Roosevelt faceva lo stesso; possiamo dire che questi media più tradizionali sono sempre stati usati in modo politico. Concordo con voi, tuttavia, che ciò che è interessante oggi è comprendere il modo in cui i media e la mediazione diventano quasi l’intero ambiente in cui noi viviamo. Non ci troviamo più nell’ambito dell’estetica o della rappresentazione in cui tradizionalmente i media hanno giocato un ruolo importante; o meglio forse sotto un certo profilo ci muoviamo ancora in quell’ambito e in quello che Benjamin descriveva con il concetto di politicizzazione dell’arte, sebbene in una modalità che Benjamin stesso oggi farebbe fatica a riconoscere. C’è sicuramente una forma di politicizzazione dei media, nel modo in cui ci siamo ormai abituati al controllo dei corpi, del clima o della finanza; qualcosa di simile si verifica nell’alta finanza, per esempio nella grande crisi del 2008, causata dalle sempre maggiori speculazioni rese possibili dalle tecnologie dei dati. Possiamo dire che la mediazione ha come espanso i propri confini e quindi il proprio potere, dall’estetica – che naturalmente ha una propria valenza politica – ad ambiti che non sono più estetici, ma sempre più politici, come la salute, il cambiamento climatico, la finanza. In tutti questi ambiti vengono usate le stesse tecnologie digitali usate per la digital art o per il cinema digitale. Questa dunque è la portata politica di questo cambiamento tecnologico.