Il romanzo Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino si apre con una bulimica prefazione «del maestro Mimmo Repetto (scritta all’aurora del giorno in cui ha compiuto cento anni)». Arrivato al crepuscolo della sua vita, quell’improbabile maestro stila un elenco delle cose del mondo che non sopporta; un elenco potenzialmente infinito, dal momento che tutto quello che non sopporta ha un nome (Sorrentino 2010, p. 9). L’insopportabile – quello che forse Deleuze avrebbe definito kafkianamente l’intollerabile, «lo stato permanente di una banalità quotidiana» (Deleuze 2016, p. 198) – ha sempre un nome: lavoratore, disoccupato; smog e aria buona; femministe, registi, filosofi; voglie, calli, soprammobili; autonomia e dipendenza. In conclusione, Repetto afferma: «Non sopporto niente e nessuno. Neanche me stesso. Soprattutto me stesso. Solo una cosa sopporto. La sfumatura» (Sorrentino 2010, p. 13). Più avanti, Tony Pagoda, la voce del romanzo, come un novello Antoine Roquentin, sembra dare un’accezione ontologica – e non meramente psicologica – alla sfumatura di Repetto, scagliandosi contro quei docenti universitari che ambiscono a catalogare l’anarchia della vita che scorre; «puntano alla complessità dell’elenco e omettono la sfumatura che, per grazia del signore, è tutta la vita che sfugge alla catalogazione, come un latitante ben protetto» (ivi, p. 136). Malgrado le loro intenzioni, tanto Mimmo Repetto, quanto Tony Pagoda, che hanno in odio filosofie e forme del sapere, nell’indefinita cromaticità di una sfumatura che si situa a metà strada fra gli estremi del mondo, sottraendosi a nomi e definizioni, sembrano aprire a un’altra maniera della filosofia: a una tonalità grigia del pensiero.
All’inizio del prologo del suo Grigio. Il colore della contemporaneità (Marsilio, 2023), Peter Sloterdijk suggerisce che è proprio nella via di mezzo delle cose del mondo, in una sfumatura del loro stato di fatto che scivola cromaticamente nel grigio, che risiede la posta in gioco del pensiero:
Chi, quasi per capriccio, provasse a suggerire che il fenomeno del "grigio" – come colore delle cose, come sfumatura dell’illuminazione di una stanza o come stato d’animo dell’esistenza – meriti una riflessione più approfondita di quella che finora gli è stata riservata negli ambiti della teoria estetica e filosofica potrebbe farsi tentare dalla frase attribuita a Paul Cézanne: "Finché non si è dipinto un grigio, non si è pittori", per cimentarsi poi con l’affermazione seguente, complementare alla prima: finché non si è pensato il grigio, non si è filosofi (Sloterdijk 2023, p. 13).
In effetti, il grigio è innanzitutto una sfida alla filosofia, nella misura in cui si pone a «metà strada tra una grandezza metaforica e una grandezza concettuale» (ibidem): quella sorta di colore che, per un’imprendibilità, in termini cromatici, dettata dal suo presentarsi ogni volta in maniera differente, ossia in infinite sfumature, destituisce ogni possibile definizione linguistica volta a catalogare il suo apparire in quanto pura materia.
Il prologo del testo di Sloterdijk è seguito da cinque capitoli; a ciascuno dei primi quattro è associata una digressione. Ogni digressione è una soglia che unisce un capitolo a un altro, e che mostra come le vette teoretiche raggiunte dal pensiero del grigio siano condotte attraverso un’archeologia delle sue sfumature – dove l’arché è «un’estremità iniziale che unisce fondamento e abisso» (ivi, p. 117) –, ossia delle apparizioni delle sue cose nella storia del mondo. Inoltre, «chiunque intenda chiedersi da dove viene il grigio in quanto tale […] deve confrontarsi con ciò che accade alla luce dopo il suo incontro con i corpi e mentre attraversa i materiali trasparenti» (ibidem), ossia: deve immancabilmente imbattersi nella nascita stessa del mondo e della sua apparizione, dal momento che occorre propriamente confrontarsi con l’apparire delle cose. E se non è filosofo chi non pensa il grigio, la nascita del pensiero è immaginativa.
Il metodo archeologico di Sloterdijk si confonde con una genealogia del grigio nei diversi campi del sapere che vede nella storia della filosofia una delle sue provenienze; ma di una storia della filosofia che, appunto, non può fare più a meno del pensiero immaginativo e dell’«espressione figurata» (ivi, p. 38). È Platone con il suo mito della caverna, infatti, ad aprire un pensiero – cioè uno sguardo – sul grigio; colui il quale, cioè, prima di Dante e della pittura grigia del Purgatorio, ha dipinto il grigio del pensiero, ossia la materia indeterminata che gioca sottoforma di ombre sul muro della caverna.
A partire da Platone, Sloterdijk costruisce una genealogia del grigio nella filosofia: passando per Hegel e per la violazione, con il “grigio sul grigio” dipinto dalla filosofia del crepuscolo in quanto nottola di Minerva, della sua stessa «legge della puntigliosità e dell’astensione dall’intuizione figurativa» (ibidem), la genealogia arriva alle celebri tesi sulla noia e la nebbia heideggeriane; a Nietzsche e ai suoi paesaggi rocciosi; a Buber e al misticismo; a Marx e alle droghe (oppio, denaro, religione), perché: «Le droghe, di qualsiasi tipo formano una zona intermedia materiale e spirituale tra i rapporti più generali e i rapporti più individuali» (ivi, p. 238).
A quella genealogia dei filosofi del grigio – o meglio, forse, dei grigi, perché quel colore, presentandosi in infinite sfumature, non può non essere un singolare di volta in volta plurale –, che si arrischiano nell’incomprensibile, nell’indicibile e irrappresentabile di quella strana cosa, materia informe, sfumata, sfuggente, si intersecano ricerche archeologiche sull’apparizione del colore nella storia della politica, nella storia della letteratura, nella storia delle arti. Insomma: la ricerca sull’apparizione del grigio lungo il corso della storia dell’uomo conferma il tratto caratteristico dell’estetica di Sloterdijk, ossia l’essere:
un’estetica antropologica. Il suo oggetto è il peculiare homo aestheticus concresciuto con Homo sapiens; la sua finalità è quella di meglio delineare l’habitat di questa creatura e di decostruirne pratiche irriflesse che, istruite nell’ambito del suo commercio sensibile con le cose […] si sono dimostrate, e si dimostrano, influenti per la determinazione strutturale e il destino storico di quell’habitat e delle forme di vita associata che vi si configurano (Montani 2017, p. X).
Ricapitolando: chi non accetta la sfida del pensiero del grigio, chi, cioè, non pensa il grigio, non è filosofo; chi non dipinge il grigio non è pittore, e al limite, suggerisce Sloterdijk, non è regista o fotografo chi non crea anche film o fotografie in scala di grigio – è errato parlare di film o fotografie in bianco e nero: in quelle immagini non sussiste una logica binaria; anzi, sono proprio le infinite sfumature di grigio che fanno la grandezza di quelle fotografie e in particolare dei film. A questo proposito, è particolarmente interessante l’attenzione posta da Sloterdijk sui film in scala di grigio contemporanei, tra cui cita Roma (2018) di Alfonso Cuarón, che sarebbe un erede di Bergman e Bresson, «nella convinzione che solo il film in scala di grigio è il medium dell’autentica arte cinematografica» (Sloterdijk 2023, p. 158); come se sia solo nelle sfumature di quel colore medio che il cinema in quanto medium – in quanto “messa in comunione”, direbbe Godard – rinnova il suo compito estetico e, insieme, etico.
La medietà del grigio, allora, permette di guardare altrimenti le cose umane e le sue storie; ad aprirle, forse, a nuove possibilità, nella misura in cui il grigio stesso «assume sfumature grazie all’aggiunta di colore senza abbandonare la sfera della quasi assenza di colore, della sua neutralità originaria. Chi cerca accoglienza presso ombre variopinte entra in un campo che è sterminato quanto le sue nuance. In ambito cromatico il grigio si avvicina a quello che dal punto di vista modale costituisce il possibile» (ivi, p. 167). Ed è proprio quella pura possibilità che permette di pensare il grigio come una medietà che può «stare bene su tutto», in particolare su tutti i prodotti della modernità: grigia è la burocrazia; grigio è lo Stato e la sua «neutralità civilizzatrice» (ivi, p. 111), ma l’espressione «zona grigia» sta a indicare anche gli spazi in cui l’attività statale è assente, dove prolifera la corruzione (ivi, p. 112). “Zona grigia” è anche quell’inquietante spazio del potere nella realtà dei Lager, descritto da Primo Levi, «dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi» (Levi 1994, p. 29) e che nell’impressionante scibile grigio di Sloterdijk è curiosamente un grande assente.
Nel corso dei primi quattro capitoli e delle prime quattro digressioni, viene alla luce la questione ontologica resa esplicita nel quinto e ultimo capitolo: il grigio sembra divenire, oggi, il problema dell’essere, nella misura in cui introduce una nozione che rende impossibile la domanda sull’essere o che, forse, rende possibile la domanda su un’ontologia dell’impossibile: l’indifferenza o, meglio, per rifuggire, forse, dalla gabbia della metafisica, le «cose indifferenti» (Sloterdijk 2023, p. 250) – il cui insieme viene indicato con il concetto di adiáphora, su cui gli antichi stoici dibattevano a lungo, e da cui, secondo Sloterdijk, deriva l’«adiaforizzazione», il solo concetto attraverso il quale sia possibile pensare le sfumature grigie del contemporaneo essere indifferente (cfr. ibidem).
Indifferente è l’essere della contemporaneità; indifferenti sono le soggettività della contemporaneità, che oscillano tra un disinteresse, un’indifferenza di tipo mistico su cui lavora Martin Buber, all’indifferenza della «libertà alienata»; della mediocrità del soggetto contemporaneo, di quello che Georg Simmel – nonostante Sloterdijk non lo citi – definiva il tipo blasé: il tipo grigio livellato dal denaro, convinto che «si possano ottenere tutte le possibili varietà della vita per la stessa somma di denaro» (Simmel 2019, p. 223), ossia per quel grigio che decide di ogni grigio e che sembra avvicinarsi a Dio, il grande indifferente che impegna Sloterdijk nelle ultime pagine.
E tuttavia, quell’indifferenza non è solo indice dell’essere grigio di un contemporaneo alla deriva, ma forse anche di un contemporaneo che devia quella deriva: grigio è il femminile che infesta il testo di Sloterdijk; un femminile grigio, prelevato da Thomas Mann (Sloterdijk 2023, p. 183), che si fa materno «snaturato» incline a «divorare ciò che ha creato» (ivi, p. 183); grigia è ugualmente la natura che non si cura dell’umano. Grigio è il colore di quella natura indifferente scoperta da Nietzsche nel grigiore delle altitudini; lo stesso che cerca disperatamente Cézanne, in un punto di giunzione tra l’irrappresentabilità di una carne femminile che non si interessa del maschile e una natura snaturata: come se nel grigio risiedesse il destino della pittura e la sua “verità”, nonché il destino di quell’unico animale che crede nell’immagine. E della sua arte di vivere: «È la sfumatura del grigio su grigio che decide sempre e in ogni situazione a che cosa dobbiamo attenerci» (ivi, p. 269); è la gradazione di luce della sua sfumatura che indica la strada attraverso cui l’estetica può aprire oggi a un’altra etica dell’indifferenza, della medietà o della terzità: «Chi non ha ancora pensato il grigio non ha ancora affrontato la domanda unde bonum (da dove viene il bene?), che rappresenta il cuore della domanda sull’essere» (ibidem).
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1994.
P. Montani, Prefazione, in P. Sloterdijk, L’imperativo estetico. Scritti sull’arte, Raffaello Cortina, Milano 2017.
G. Simmel, Filosofia del denaro, Ledizioni, Milano 2019.
P. Sloterdijk, Grigio. Il colore della contemporaneità, Marsilio, Venezia 2023.
P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, Feltrinelli, Milano 2010.
Peter Sloterdijk, Grigio. Il colore della contemporaneità, Marsilio, Venezia 2023.