Come il cinema ci ha insegnato a più riprese, lo snodo centrale della contemporaneità, in quanto epoca segnata dall’iconic turn, sta nella qualità dello sguardo più che nella selezione dell’oggetto visto, nel come si vede più che nel che cosa si vede. Tutto si gioca sulla capacità di costruire uno sguardo etico, e dunque sulla capacità di costruire un’idea di mondo attraverso il modo in cui si usano la tecnica e il linguaggio. Green Border di Agnieszka Holland coglie il tema dell’etica allo zenith di un ordinario dramma dei nostri giorni, quello dei migranti che non trovano una terra che li accoglie. Girato in bianco e nero – per non fuggire in divagazioni, ma cogliere il cuore, l’essenza della realtà in cui viviamo – il film racconta quella striscia di bosco tra la Bielorussia e la Polonia, lunga poco meno di duecento chilometri, in cui ogni giorno uomini, donne, bambini, giovani e vecchi provenienti via terra dal Medio Oriente e dall’Africa vengono rimbalzati, talvolta addirittura gettati, da una parte all’altra del filo spinato che corre lungo la linea del confine.

Eppure il film non comincia con questo tono. Sembra anzi un racconto di viaggio familiare: sull’aereo turco che porta una famiglia siriana e un’insegnante afghana in fuga verso la Bielorussia non c’è ancora l’aria del dramma. La tranquillità però dura poco: scesi dall’aereo, i profughi salgono su un’auto che li porta al confine con la Polonia. Di là dal filo spinato c’è – o dovrebbe esserci – la salvezza, di qua l’arroganza della polizia di frontiera bielorussa che per voltarsi dall’altra parte e far finta di non vedere pretende mazzette. Ma le cose non stanno esattamente così e il confine, che dovrebbe costituire una barriera protettiva che separa dall’altro, si rivela invece come eterotopia, luogo di un altrove oscuro rispetto alla certezza dei territori, zona mista e insicura dove tutto può accadere.

Il macabro e sadico match che si gioca sulla pelle dei migranti, spediti da una parte all’altra dalle due polizie, è interrotto soltanto dalla fuga o dalla morte di chi non riesce a scappare o non ce la fa a sopravvivere alle torture e agli abusi delle guardie di frontiera. Usati da un lato come strumenti contro l’Europa dal dittatore bielorusso Lukashenko che li attira promettendo un passaggio facile verso Eldorado, e mostrificati dall’altro lato dalla propaganda di stato polacca in quanto minacce e pericolose armi del terrorismo della coppia Lukashenko-Putin, i richiedenti asilo sono assistiti soltanto da gruppi di attivisti clandestini che rischiano la vita cercando di fornire loro cibo, coperte, abiti e cure mediche, mentre una psichiatra polacca cinquantenne mette a rischio la propria esistenza per diventare anch’essa un’attivista. Tra le fila dei bestiali soldati polacchi un giovane che sta per diventare padre non regge la tensione e si dilania, si ubriaca prima di cedere ad un gesto di umanità.

Nella zona mista tutto può dunque accadere, e qui sta la grandezza etica ed estetica del film. Tra i polacchi c’è chi mantiene la sua rigidità da cane da guardia e chi sta male nel ruolo di carnefice: il film avanza in un crescendo di tensione acuita dal bianco e nero a volte sgranato, altre volte scolpito, dalla violenza della macchina a mano, dal fuoricampo elusivo. Tra chi continua a morire e chi continua a inseguire i poveracci, si insinua la coscienza. Coscienza del cinema oltre che dell’uomo. E coscienza dell’uomo perché lo è del cinema, in una sintonia in cui il cinema aiuta l’uomo a ritrovare la sua identità umanista. Non ci sono orpelli narrativi, non c’è l’estetica del sangue. Il film, che era nato come dramma della non comunicazione, diventa manifesto di una comunicazione muta, frutto di due sguardi, quelli di un poliziotto e di un profugo, che si incrociano e si capiscono nella sequenza culminante del sottofinale. È la lezione di Rossellini, del Rossellini di Paisà (1946). Anche lì stranieri che non comunicano finiscono per intendersi con gli occhi.

Tutto questo è narrato da Holland senza un briciolo di retorica, con l’occhio della camera incollato sugli esseri umani e sugli oggetti, a registrare l’ansia di chi fugge e l’odio perverso di chi dà loro la caccia. Ogni piccolo gesto, ogni suono della foresta e degli animali che la popolano viene restituito con una tecnica “immersiva” che non lascia spazio allo spettatore di svincolarsi, di distaccarsi nemmeno per un attimo dall’orrore nel quale si è sprofondati. A fronte di tanta ferocia l’accoglienza riservata dallo stato polacco ai profughi ucraini, raccontata nel finale del film, getta tinte ancora più fosche sull’altra vicenda. Qui il film ha un’impennata politica che rilancia la questione delle ambiguità dell’Europa. La Polonia ha accolto due milioni di ucraini dall’inizio del conflitto: in questo caso il confine letteralmente non esiste più, le barriere sono aperte e si guarda sciamare chi vede nell’Europa la nuova patria. Il confine non è più eterotopia dove tutto è possibile, altrove nascosto agli occhi del mondo, ma, letteralmente, utopia, luogo che non esiste (più).

Green Border. Regia: Agnieszka Holland; sceneggiatura: Maciej Pisuk, Gabriela Łazarkiewicz-Sieczko, Agnieszka Holland; fotografia: Tomasz Naumiuk; montaggio: Pavel Hrdlička; interpreti: Jalal Altawil, Maja Ostaszewska, Tomasz Włosok, Behi Djanati Atai, Mohamad Al Rashi, Dalia Naous; produzione: Metro Films, Blick Productions, Marlene Film Production, Beluga Tree, Canal+ Polska, dFlights, Mazowiecki i Warszawski Fundusz Filmowy, Česká televize; distribuzione: Movies Inspired; origine: Polonia, Francia, Repubblica Ceca, Belgio; durata: 152′; anno: 2023.

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