Youtube è pieno di film di Jean-Luc Godard. Alcuni sono video realizzati in casa o in bottega, come un vecchio artigiano o un utente del web. Uno di questi mi fa compagnia da diversi anni e, ogni tanto, torno a guardarlo. È lo spot della ventiduesima edizione del Festival Internazionale del Documentario di Jihlava, in Repubblica Ceca. Dura un minuto. L’inquadratura è fissa su un tavolo di legno. In primo piano una mano – quella del regista stesso – sorregge un iPhone 6 o 7 di colore bianco. L’indice dell’altra mano fa scorrere verso sinistra e destra una serie di immagini eterogenee: foto private, celebri dipinti, disegni e scritte realizzate a mano (riconosciamo il tratto), il primo piano (si dice così anche con gli animali?) del cane, un autoritratto (come indicato nell’interfaccia, «a dicembre»). La voce off di Godard alterna borbottii, colpi di tosse, geografie, recriminazioni, politica, allusioni, utopie: “And even if nothing turned out how we’d hoped, it would not have changed what we’d hoped for”. Come è evidente, tutto il video è un esplicito rimando alla sperimentazione audiovisiva intrapresa dallo stesso Godard quantomeno a partire dagli anni ottanta. Eppure, quella che abbiamo davanti agli occhi è l’interfaccia di Photos, la principale applicazione per la visualizzazione di immagini su piattaforma Apple.

Del regista di origine svizzera si può dire di tutto e, del resto, di tutto e di più si è concesso lui stesso nelle molteplici dichiarazioni pubbliche, quasi sempre provocatorie, occasionalmente discutibili, costantemente discusse, molto spesso ciniche. Ma al di là della sua fama di critico radicale (ben più che chic), Godard è un pensiero e una pratica dell’immagine in movimento. È un’idea della critica intesa come perpetua creazione, perseguita e articolata – in modo finanche commuovente – nel corso dei decenni.

Fin da Fino all’ultimo respiro (1960), il suo cinema è un tentativo di raccontare lo scorrere del tempo e la vita stessa che continuamente sfugge o viene sottratta a sé stessa da altri dispositivi (mediatici, politici, giudiziari, sociali, culturali). Contro la tentazione di celebrare un Godard intransigente purista, il suo lavoro artistico si inserisce e confronta da subito, con straordinaria eleganza, con un’immanenza della vita e del quotidiano irreparabilmente mediatizzati (su tutti, si riveda Il maschio e la femmina, 1966 e, più in generale, tutti i film pre-sessantotto). Ma non lo fa con l’attitudine del cinico o con l’appagamento dello zappeur, né tantomeno si abbandona all’impressione di leggerezza offerta dal flusso, dalla rassicurante protezione del medium. Fare un film è piuttosto un corpo a corpo con la positività degli altri dispositivi, dei quali il cinema ha la capacità di operare un détournement, qui inteso come tattica estetica affermativa e alternativa alla polarizzazione dialettica (l’ET, il tra le immagini su cui si concentrerà il Gilles Deleuze cinematografico, allievo di Godard).

Se il rapporto tra tecnologia, comunicazione/propaganda e forme di vita è da subito centrale, la fine degli anni sessanta si caratterizza per la collaborazione con Jean-Pierre Gorin e la fondazione del Gruppo Dziga Vertov. Un passaggio alla militanza – nella complessità assunta da tale termine nel contesto culturale francese dei primi anni Settanta – che arriverà a piena maturazione (e ripensamento) con Ici et ailleurs (1976) quando, anche grazie al confronto con Elias Sanbar e Anne-Marie Miéville, Godard comprende la necessità di concepire il film militante come film di montaggio: osservare ogni immagine proprio in quanto immagine e non come rappresentazione della causa in questione. È dunque focalizzando il tema dello sguardo come problema eminentemente geografico e politico che Godard saprà anticipare alcune delle questioni successivamente emerse nel quadro del pensiero post-coloniale.

Nel moltiplicarsi di progetti di diverse forme e formati, mentre si afferma la tecnologia video, gli anni ottanta vedono l’apertura del cantiere Histoire(s) du cinéma (1988-1998): un progetto abissale, come può esserlo il tentativo benjaminiano di spazzolare contropelo gli archivi visivi, sonori e letterari della cultura occidentale, dando forma a un’unica grande opera in otto episodi. Un rimontaggio del Secolo che va a fondo di questioni storiche e filosofiche come il rapporto tra immagine e potere, la legittimità della violenza, la cecità dei media di fronte allo sterminio nazista, la creazione come resistenza. Una riflessione per immagini senza precedenti, capace di riorientare le forme della creatività contemporanea: l’affermazione di un’estetica dell’archivio nelle arti visive e audiovisive, lo sviluppo del found footage cinema e le varie forme di sperimentazione intermediale. Dopo le Histoire(s), Godard si renderà del resto partecipe di tale onda creativa, facendo di ogni nuovo film – da For Ever Mozart (1996) a Notre musique (2004), da Film socialisme (2010) a Adieu au langage (2014), fino a Le livre d’images (2018) – un’occasione per riflettere sul carattere delle comunicazioni che consumiamo, sulla persistenza di vecchie retoriche all’interno di immagini dall’apparenza nuova, sulle potenzialità inesplorate delle tecnologie.

Per fare critica al di là del linguaggio verbale, sembra dirci Godard, dall’inizio alla fine, occorre accettare il rischio insito nella lavorazione di qualcosa di inevitabilmente sporco, come un’immagine che si agita all’interno di un dispositivo tecnologico; qualcosa di sempre eccessivo, ridondante, triviale, strumentalizzabile. A tale condizione di impurità corrisponde dunque un investimento nel processo di messa in forma: un lavoro sulle sfumature cognitive e sensibili, con il fine di valorizzare la capacità dell’immaginazione di porre domande, mettere in crisi certezze, indagare le soglie tra ciò che si ritiene lecito e ciò che è «proibito». In altre parole, contro le scorciatoie nelle quali rischia talvolta di perdersi l’idea di militanza, scorciatoie prese dallo stesso Godard in alcune dichiarazioni pubbliche, la sperimentazione estetica del suo cinema non è mai secondaria all’impegno politico. A rendersi sempre e comunque necessaria è l’invenzione di un’estetica della critica (inscindibile da una critica dell’estetica), a maggior ragione quando l’obiettivo che si intende perseguire è l’esercizio critico stesso.

Nei giorni successivi alla morte di Jean-Luc Godard, qualche giornale ha parlato della scomparsa di un mostro sacro del secolo scorso e, con lui, della fine del Novecento cinematografico. Forse non hanno visto i suoi film: i corpi dei personaggi che si liberano in balli anomali e coordinati; i taglienti gesti di montaggio che mai come oggi sembrano trovare riscontro nei nostri gesti, impegnati come siamo a tagliare corto e continuamente provare a ricucire; le grafiche e, più in generale, la composizione delle immagini, infinite volte riprese e saccheggiate nella comunicazione visiva degli ultimi decenni, nelle interfacce stesse dei nuovi media. Quanto è certo è che chi parla di Godard al passato non ha visto lo spot del Festival di Jihlava, il piccolo film che citavo in apertura, dove il regista scorre immagini pubbliche e private, forzandoci a tenere insieme (in chiave critica e autocritica) l’estetica del montaggio inaugurata nel cantiere delle Histoire(s) e l’estetica del quotidiano digitale di tutti noi, nelle applicazioni delle aziende di Mark Zuckerberg e Steve Jobs. Perché una delle questioni con le quali è più difficile fare i conti è che Godard non ha soltanto rinnovato il cinema e le arti, ma ha prefigurato le svolte mediatiche del nuovo millennio e indirettamente influenzato i campi della cultura e della comunicazione, l’affermazione del settore terziario e dei lavori cognitivi: quegli stessi ambiti contro i quali, continuamente nel corso degli anni, avrebbe scagliato le sue invettive.

In più di sessant’anni di carriera, il regista nato a Parigi il 3 dicembre del 1930 e morto a Rolle il 13 settembre scorso ha ispirato biografie monumentali e infiniti saggi critici. Solo in questa settimana siamo in tanti ad aver provato a schizzare un ritratto capace di sintetizzare una vita tra le immagini. Ma la verità è che ci vorrebbe Giorgio Vasari – storico, biografo e critico di giganti come Leonardo Da Vinci, Piero Della Francesca, Michelangelo Buonarroti – per inquadrare e collocare questo genio in bilico tra due secoli, capace di lavorare come nessun altro tra l’analogico e il digitale, tra l’industria del cinema e il sistema delle arti.

Anche chi non ha mai visto un suo film, anche chi si prende gioco della sua au(c)torialità non può non aver goduto – indirettamente e inconsapevolmente, in quel domino che sono le forme e le pratiche sociali – delle sue invenzioni. Creatore di forme che pensano, creatore tout court: Jean-Luc Godard, il più grande artista della storia del cinema.

Jean-Luc Godard, Parigi, 3 dicembre 1930 – Rolle, 13 settembre 2022.

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