Come già L’impero in periferia di Marco Gatto, uscito per Galaad nel 2015, anche le Cronache letterarie di Antonio Tricomi, pubblicate nel 2017 per la stessa casa editrice, nascono come un’antologia di scritti critici già apparsi altrove. Recensioni, articoli e saggi vengono così ad essere raccolti dal loro precedente stato di dispersione – Tricomi è collaboratore abituale di alcuni quotidiani e riviste, come ad esempio Il Ponte, Lo Straniero, L’Immaginazione – e riuniti entro una forma che possa dar meglio conto del posizionamento intellettuale dell’autore. In una prospettiva di critica letteraria che si voglia considerare, in chiave marxista, come storia delle forme, è forse l’antologia ad esprimere oggi al meglio il doppio anelito della scrittura saggistica a sfuggire alla tentazione illusoria di “andata al popolo” del saggio-pamphlet e a ricostruire quella pratica intellettuale – in mancanza di uno statuto che ne fissi la funzione – che è costretta a condizioni di volatilità e frammentarietà dalle dinamiche del lavoro culturale contemporaneo.

Non è casuale, quindi, che lo sguardo di Tricomi si soffermi innanzitutto su alcuni fenomeni della produzione letteraria contemporanea – l’oscillazione tra autofiction e opere-mondo, come effetto di una relazione io-mondo resa costantemente precaria, tra processi di globalizzazione economica e culturale e dinamiche di destabilizzazione delle singole soggettività – senza arrestarsi, come succede talvolta con il saggio-pamphlet, alla superficie del sintomo, bensì indagandone più a fondo le ragioni. Tricomi propone, infatti, un’analisi di opere molto diverse tra loro – come ad esempio L’altro Occidente. Dall’Avana a Buenos Aires (2014) di Rino Genovese, oppure Exit strategy (2014) di Walter Siti, cui si aggiunge un nutrito saggio, in posizione centrale nel libro, sull’opera di Emmanuel Carrère – che prelude, in realtà, a un’interrogazione, continua e lacerante, su una possibile pratica intellettuale che faccia fronte ad una sempre più imminente catastrofe culturale.

Oltre ad applicare quest’ultima riflessione alla lettura di alcuni testi, come Sottomissione (2015) di Michel Houellebecq – criticato non tanto per la sua presunta islamofobia, quanto per la scarsa riuscita formale, rispetto ad un intento ideologico analogo a quello del recensore – Tricomi individua anche un punto di riferimento teorico: si tratta del Gunther Anders de L’uomo è antiquato (1956, 1980), nel quale l’uomo, sopraffatto dall’evoluzione tecnologica che ha portato alla bomba atomica, si è ormai abbandonato ad un nichilismo indistinguibile dalla volontà di annichilimento.

Alla frequente evocazione di Anders, che costituisce una sottotraccia rilevante per buona parte delle Cronache letterarie di Tricomi, si unisce il riferimento a Alexandre Kojève, che emerge nell’analisi de I destini generali (2015) di Guido Mazzoni. Nel suo delineare una forma di “disagio” come ultima e più coerente risposta alle forme contemporanee di crisi della tradizione umanistica, il saggio di Mazzoni ricorre proprio ad alcune riflessioni di Kojève, poi sottilmente riprese da Tricomi.

Tuttavia, allorché entrambi pensano al disastro in arrivo, o già arrivato, come forma di estinzione dell’umanesimo e, con esso, dell’umano, Anders e Kojève risultano uniti da un trait d’union molto labile. Per Anders, infatti, rimane una residua possibilità di fare fronte al nichilismo annichilente tramite la proposta di un lavoro intellettuale che si indirizzi verso una (poi non meglio precisata) “ermeneutica prognostica”, esclusivamente rivolta al futuro e basata sull’immaginazione, come si legge nelle pagine finali del secondo volume de L’uomo è antiquato. Per Kojève, invece, l’umano, davanti alla fine della storia (concezione peraltro che, come nota lo stesso Mazzoni, rimanda alla nota definizione di Francis Fukuyama e a un orizzonte temporale completamente allineato alle forme di dominio neoliberale), non può resistere in alcun modo alla diluizione entro una nuova forma di animalità, incline a scambiare il proprio edonismo per istinto originario (facendone dunque ideologia).

Nella lettura di Tricomi, tale animalità si attaglia in modo particolare agli “esponenti delle leve più giovani, persino a quelli dediti al lavoro culturale”, che:

scambiando quell’annichilimento estremo delle soggettività, costituito dalla regressione degli individui a uno stato di pura ferinità, per un salutare incremento dionisiaco  delle loro capacità di autorealizzazione – tendono a concepire il ripensamento dei saperi umanistici non come un potenziale antidoto contro siffatta riduzione della civiltà a barbarie, bensì alla stregua di un’ulteriore giustificazione di siffatto processo, misconosciuto nel suo reale significato e invece percepito quale spinta della collettività intera al progresso sociale (pp. 113-114).

L’adesione pseudo-istintuale alla Natura che è propria di questa nuova animalità non è, tuttavia, l’unica figurazione post-storica fornita da Kojève. Essa coesiste con lo snobismo, che è il suo opposto speculare, in quanto, invece di sovrapporsi alla Natura, si rifà piuttosto ad una concezione totalizzante di Cultura, dai valori completamente ritualizzati, dunque formalizzati. Gli esempi forniti dallo stesso Kojève sono illuminanti: all’animalità edonistica della American way of life viene giustapposto lo snobismo della ritualizzazione formalistica del teatro Nō giapponese.

Come ha segnalato Paolo Virno ne Il ricordo del presente (1999), sia l’animalità che lo snobismo procedono da una frattura tra forme e contenuti che non può che riguardare anche le sfere del lavoro e della politica e, dunque, la storia, configurando dunque l’era descritta da Kojève non tanto come “post-storica”, quanto come “iper-storica”. Anche senza aderire in toto alla posizione di Virno, pare opportuno comunque rilevare come tra “post-storico” e “iper-storico” si possa instaurare il continuum della storia propriamente detta (come segnalano del resto gli esempi forniti da Kojève, perfettamente in linea con lo scenario geopolitico a lui coevo, apertosi durante e dopo la seconda guerra mondiale).

Si tratta, inoltre, di due figurazioni egualmente ideologiche, per le modalità in cui superano agilmente la frattura tra forme e contenuti nella quale pure sono dette agire. Operare la critica dell’ideologia rispetto a questo doppio rapporto può allora dare nuova linfa al lavoro intellettuale, in un tempo che resta ancora storico, e sottrarre il già citato “ripensamento dei saperi umanistici” alla sua dissoluzione edonistica.

Essa, infatti, risulta paradossalmente tanto più produttiva, quanto meno è inserita nelle logiche politico-economiche delle istituzioni dove tale ripensamento avviene, a partire, ad esempio, dall’università italiana. Si tratta allora di proporre una critica della falsa coscienza dell’intellettuale accademico (quella stessa falsa coscienza che prelude all’andata al popolo del saggista con ambizioni panflettistiche) che va a coincidere con i legittimi propositi censori di Tricomi riguardo al “[c]rescente desiderio di conformistica autocastrazione individuale, di posticce retoriche identitarie mutuate dai discorsi religiosi, di esibizionistico autoritarismo politico-culturale” (p. 114) che caratterizzerebbe la nuova animalità anche nella sua produzione intellettuale.

A partire da queste posizioni, tuttavia, sembra ancora possibile operare in modo non soltanto riflessivo, ma anche autocosciente, restando all’interno di quel movimento di “ripensamento dei saperi” censurato da Tricomi e che oggi va in direzione della proliferazione (anch’essa certamente neoliberale, in principio) degli Studies. Essi, infatti, mantengono un potenziale dialettico, che si può dispiegare anche in questa doppia lettura, di Mazzoni e Tricomi: nei confronti della catastrofe culturale, in quanto dato “occidentale”, in Tricomi, dal punto di vista dei Postcolonial Studies; rispetto al concetto antropocentrico della nuova animalità di Kojève, dal punto di vista degli Animal Studies; rispetto al “disagio” di Mazzoni nei confronti del lavoro intellettuale e della cultura umanistica, al quale possono opporre più articolate lotte intersezionali di genere (e insieme di razza, classe, etc.), dal punto di vista, tra i tanti, dei Gender Studies.

Ed è così che si può tentare anche di manipolare la posizione etica ricercata dall’autore di Cronache letterarie nella linea che porta dalla Terza serie dei Saggi critici (1959) di Giacomo Debenedetti ai recenti saggi di Luca Lenzini, come ad esempio Il gatto di Arnheim e altri scritti clandestini (2016). Operare, dunque, non tanto perché il lavoro intellettuale sia ancora veicolo di senso e trasformazione, in sé, ma come se lo fosse – secondo quanto propone Tricomi, leggendo Debenedetti e Lenzini – oppure, chiasmaticamente, come se questo non avesse davvero più senso, ma alla ricerca, nello stesso tempo, di una rinnovata, perché ancora legittima, filosofia della storia.

Criticando, quindi, l’aspetto ideologico di quest’ultimo vuoto di senso, accanto a molti altri “pieni” che sono egualmente demistificabili, come nel caso del rapporto tra nuova animalità e Natura, e, in ogni caso, compiendo già un piccolo passo oltre l’attestazione di un paralizzante (e, per certi versi, comodissimo) “disagio”, ma senza per questo affrettarsi verso la catastrofe.

Riferimenti bibliografici
G. Debenedetti, Saggi critici. Terza serie, Il Saggiatore, Milano 1959.

L. Lenzini, Il gatto di Arnheim e altri scritti clandestini, Zona, Lavagna 2016.
A. Tricomi, Cronache letterarie, Galaad, Giulianova 2017.
P. Virno, Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, Bollati Boringhieri, Milano 1999.

L’immagine presente nell’articolo e in anteprima è un dettaglio della copertina del libro.

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