Robert Allen Zimmerman, chi era costui? Nel 1967 l’esordiente Gian Pieretti (armato di armonica a bocca sul modello di Bob Dylan e John Lennon) e il francese Antoine presentano a Sanremo – in piena fenomenologia di Mike Bongiorno – il brano Pietre, attribuito a Ricky Gianco, che ottiene popolarità grazie al suo motivetto quasi alla Jannacci: «Tu sei buono e ti tirano le pietre / sei cattivo e ti tirano le pietre / qualunque cosa fai dovunque te ne vai / tu sempre pietre in faccia prenderai».  Evidentemente i selezionatori del 17° festival della canzone italiana, poi vinto dall’accoppiata Claudio Villa/Iva Zanicchi, non hanno ancora ascoltato l’album doppio di Bob Dylan Blonde on blonde, che si apre proprio con la stessa marcetta felliniana condita di armonica e con un testo (misteriosamente intitolato Rainy day women # 12 & 35) in cui la nuova star della musica americana denuncia la lapidazione a cui è quotidianamente sottoposto da parte dei fan e dei media: «Well they’ll stone you when you’re trying to be so good / they’ll stone you like they said they would».

Un evidente caso di mancato aggiornamento professionale, visto che Dylan è ben noto in Italia fin dai tempi di Blowin’ in the wind, il brano d’apertura dell’epocale 33 The freewheelin’ (1963) che viene tradotto dal giovane Mogol (prima della collaborazione con Lucio Battisti, un cantautore il cui look di partenza risente molto di quello dylaniano) e poi registrato, col titolo La risposta è caduta nel vento e con un arrangiamento piuttosto infelice, da Luigi Tenco (il cui suicidio si colloca proprio in quel Sanremo numero 17). Perché qualcosa sta succedendo qui ma tu non sai che cos’è, vero, signor Mike?

Nel 1967 il futuro cabarettista Pippo Franco incide il 45 giri Vedendo la foto di Bob Dylan, probabilmente la prima canzone che mette nel titolo il nome del menestrello di Duluth, in largo anticipo sulla Song for Bob Dylan inserita da David Bowie nell’album Hunky Dory (1971). Il testo è ovviamente parodistico, configurandosi come la crisi di un giovane balbuziente la cui aspirazione a far parte della cultura beat si scontra con un’interdizione che affonda nel complesso edipico: «Vedendo la foto di Bob Dylan / my father mi ha detto che gli sembra / un individuo da clinica psichiatrica».

Nell’arco di soli quattro anni (1962/66), in cui il ventenne erede di Woody Guthrie ha prodotto sette album con cui ha traghettato il folk revival sulle sponde elettriche del rock (guadagnando alla sua icona un posto sulla storica copertina del Sgt Pepper dei Beatles), Bob Dylan passa da rappresentante della controcultura a monumento da abbattere; ma le sue innovazioni fanno scuola a distanza. Sul lato B della sanremese L’arca di Noè (1970) Sergio Endrigo mette Dall’America, una sorta di lettera aperta a Dylan e Joan Baez: «Caro amico Bob e amica Joan / dall’America voi cantate / la speranza e la paura / di chi vuole una nuova libertà / questa voce è una rosa che vivrà». Le profezie della fine, aumentate con lo shockante incidente motociclistico del 1966, si intrecciano con le procedure di beatificazione in vita.

Se esistesse un’americanizzazione cattiva e un’americanizzazione buona, e non la pura e semplice omologazione che Pasolini vedeva nella mutazione antropologica dell’Italia, Bob Dylan dovremmo considerarlo come un influencer che ha svecchiato la cultura italiana – e non soltanto in campo musicale. Ai livelli minimi abbiamo la moda dell’armonica a bocca (Edoardo Bennato ne fa un logo che appare su molte copertine) in associazione con la chitarra elettrica (una versione drammatizzata è quella di Morricone per C’era una volta il West, il cui protagonista è soprannominato Armonica) nonché la dilatazione della durata dei brani (Dylan è il primo a riempire un’intera facciata di LP con una composizione, Sad eyed lady of the lowlands nel già citato Blonde on blonde; il primo in Italia è Alan Sorrenti con Aria nel 1972). Ai livelli alti abbiamo una innovazione profonda nella scrittura dei testi, tanto nei temi quanto nella libertà poetica spinta fino all’ermetismo; lo stesso Lucio Battisti nella metacanzone Registrazione confessa: «Da Paul McCartney ho imparato a cantare / da Dylan a dire quello che mi pare».

Fabrizio De André, che nei primi album inserisce le sue versioni in italiano di canzoni di Georges Brassens, nel 1974 contatta il dylaniato Francesco De Gregori per mettere in piedi una traduzione di Desolation row quasi nel decennale di Highway 61 revisited: ne viene fuori Via della Povertà, che finisce nell’album Canzoni (in cui sono presenti anche, per non farsi mancare niente, traduzioni da Brassens e Leonard Cohen) e poi viene rimaneggiata da De André per i suoi concerti dal vivo con la Premiata Forneria Marconi (qualcosa che somiglia all’uso di The Band nella tournée di Dylan del 1974) e in seguito da De Gregori che la inserisce nel suo omaggio a Dylan datato 2015 (il titolo Amore e furto è ovviamente l’esibito ricalco di Love and theft, album d’inizio millennio). Ma De André non si ferma e, dopo il Volume 8 costruito assieme a De Gregori (1975), nel successivo Rimini (1978) inserisce Avventura a Durango, una traduzione di Romance in Durango (dall’album Desire, quello di Hurricane) in cui la mischia americano/messicano viene reso con una mischia italiano/napoletano/abruzzese: «No llores mi querida / soon the desert will be gone» diventa «Nun chiagne Maddalena / stu deserto finirà». L’americanizzazione, come ai tempi del Neorealismo, viene precipitata nell’extraterritorialità dei dialetti.

Quando arriva Franco Battiato, siamo ormai alla storicizzazione, dunque alla resa dei conti. Bandiera bianca, nell’album della svolta La voce del padrone (1981), inizia così: «Mister Tamburino non ho voglia di scherzare / rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare»; il riferimento a Mr. Tambourine Man e a The times they are a-changin’ è ormai destituito di qualunque sacralità artistica, i classici della modernità sono già ridotti a frammenti riutilizzabili accanto a qualunque altro tipo di musica. Un altro brano dello stesso album è Cuccurucucù (paloma), come dire Claudio Villa in versione disco music, che così si conclude: «Once upon a time you dressed so fine Mary / like just a woman / like a rolling stone»; e se avete notato l’errore non dovete correggerlo, ma chiedervi perché Battiato lo fa volutamente.

Si può spingere il gioco fino al dopo-Nobel, per vedere come le ultime generazioni si rapportano al mito: ad esempio in rete trovate un cantautore che si chiama Endrigo che ha inciso una canzone che si chiama Bob Dylan (2017), ovviamente dedicata alle difficoltà della carriera («Vendiamo i vent’anni a prezzo popolare / ché anche a Bob Dylan hanno detto basta»). Oppure si può sondare oltre l’orizzonte discografico e vedere l’influenza nelle zone dell’immagine; per scoprire, ad esempio, che Luigi Ghirri (1943-1992) – rinnovatore della fotografia italiana di paesaggio e non solo – viveva in una casa sormontata dalla scritta «DYLAN FOREVER».

In un dattiloscritto datato 1987 intitolato Le nuvole nel cielo della vita di Pat Garrett (con riferimento al western di Peckinpah in cui Dylan fa il personaggio di Alias ma è anche l’autore della colonna sonora), in parte pubblicato sul quotidiano “l’Unità” del 12 settembre 1987, Luigi Ghirri scrive:

Ci saranno state delle nuvole nel cielo quando ascoltavo le canzoni di Dylan, e le sue nenie ipnotiche, pian piano, liberavano il mio sguardo spaurito dal timore di guardare nel mondo […]. Ci sono sempre le nuvole nel cielo quando ascolto le canzoni di Dylan, e si compie l’incanto di una misteriosa ricomposizione, come se la sua voce e la sua musica fossero il miracoloso segreto per guardare nel mondo che ho di fronte (Ghirri 2008, p. 124).

Tutto storicizzato, si dirà, visto che Ghirri e De André (e Giorgio Gaber, quello che cantava Blowin’ in the wind in coppia con Caterina Caselli) sono scomparsi da tempo e anche Battiato è spirato proprio mentre questo pezzo veniva battuto. Tutto storicizzato eppure tutto affidato al presente dell’ascolto e della visione, nel sessantesimo anniversario della prima incisione. Perché Bob Dylan ci ha insegnato che gli artisti sono, anche quando stanno bussando alle porte del Paradiso, forever young.

Riferimenti bibliografici
A. Bratus, Bob Dylan. Un percorso in sedici canzoni, Carocci, Roma 2011.
A. Carrera, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, Feltrinelli, Milano 2001.
L. Ghirri, Bello qui, non è vero?, Contrasto, Roma 2008.
L. Grossi, L’inferno di Bob Dylan. Il dialogo con Dante nell’opera del Bardo di Duluth, Arcana Edizioni, Roma 2018.
R. Ornaghi, P. Cociancich, Dylan lombard. El mej de Bob Dylan in lengua mader, Opificio Monzese delle Pietre Dure, Monza 2016.
R. Salvagnini, Il cinema di Bob Dylan, Le Mani, Genova 2019.

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