È in corso al Palazzo Te di Mantova la mostra Giulio Romano. La forza delle cose, dedicata a quello che i curatori Barbara Furlotti e Guido Rebecchini chiamano, con sapiente anacronismo, il “talento da designer” dell’artista, la cui multiforme attività è indissolubilmente legata alla grandezza della Corte dei Gonzaga. Dei molti oggetti su cui quel talento venne profuso, soltanto di uno sono giunti sino a noi, ed esposti in mostra, tanto il disegno giuliesco quanto l’artefatto, realizzato da un anonimo armaiolo milanese: l’eccezionale scudo rotondo (la “rotella”, come la si chiamava allora) destinato niente di meno che all’imperatore Carlo V.
Realizzato tra il 1535 e il 1540, di cosa ci parla oggi – quasi 500 anni più tardi – lo scudo da parata progettato da Giulio Romano per il pressoché quarantenne Carlo V, nato col secolo, il sovrano al quale si deve la celeberrima frase “Sulle mie terre non tramonta mai il Sole”? Ci può parlare, certo, del suo sogno di unificazione politico-religiosa dell’Europa, allora per lui ben vivo, come conferma il titolo con cui l’artefatto è noto: scudo del Plus Ultra o dell’Apoteosi di Carlo V. Ma più in profondità – nella profondità di quelle che Fernand Braudel chiamava «le strutture del quotidiano» che scandiscono la nostra «vita materiale» (per Braudel emblematicamente testimoniata da un disegno che mostra il nonno di Carlo V, Massimiliano d’Austria, mangiare intorno al 1513 mettendo le mani nel piatto) – più in profondità, dicevo, questo scudo ci parla inoltre di certe funzioni che hanno cominciato a intessere i rapporti degli esseri umani con l’ambiente circostante addirittura sin da prima della comparsa dell’homo sapiens.
La funzione di proteggere, certo: lo scudo è infatti l’arma di difesa per eccellenza, lo schermo per antonomasia, visto che quest’ultimo termine deriva dal verbo longobardo skirmjan che significa appunto “difendere”, “proteggere combattendo”. Ma anche la funzione di esporre: l’espressione “sugli scudi”, che ho scelto qui come titolo, riecheggia infatti l’usanza gallica, ben conosciuta dai lettori di Asterix, che consisteva nel portare in trionfo sopra il suo stesso scudo il condottiero vincitore di una battaglia. Ed è appunto una simile usanza che si trova a suo modo prolungata in uno scudo da parata – termine, quest’ultimo, che equivale appunto a “sfoggio”, “esibizione” – come quello di Carlo V, in cui il sovrano viene letteralmente “messo” – in immagine, beninteso – sullo scudo stesso e celebrato, scrive Barbara Furlotti nel catalogo della mostra, quale «nuovo Cesare e conquistatore del mondo».
Del resto, proprio questo programma politico risulta reso esplicito dal grande scudo che la Fama imbraccia all’interno dello scudo di Carlo V – mise en abîme emblematicamente manierista – mettendo in mostra appunto la scritta Plus Ultra (“Ancora oltre”). L’artefatto riveste dunque anche la funzione di mostrare, che, attirando i nostri sguardi su quanto la esercita, li distoglie da altro, facendo quindi tutt’uno con quella di nascondere.
A ben guardare, questa duplice funzione di mostrare e insieme nascondere sembra trovare la sua celebrazione estrema in una delle immagini più utilizzate sugli scudi da parata del Cinquecento: la testa di Medusa, la cui più famosa raffigurazione su uno di tali scudi si deve, meno di sessant’anni dopo la realizzazione di quello di Carlo V, a Michelangelo Merisi da Caravaggio. Tra il 1596 e il 1598 il Caravaggio esegue infatti due dipinti a olio su tela, montati su scudi convessi di legno, raffiguranti la testa di Medusa che, benché recisa, non perde il suo potere di pietrificare chi la guarda negli occhi: non perde, insomma, il potere d’impedire di vedere altro che lo sguardo di lei, esponendo così chi ne è catturato alla facile uccisione da parte del detentore dello scudo.
Del resto, è noto come già il mito di Medusa ne leghi il destino alle diverse ma complementari funzioni di uno scudo: quello che Atena presta a Perseo per permettergli di affrontare e uccidere l’unica Gòrgone non immortale, ma la più terrificante: Medusa, appunto. Nella versione del mito riportata da Ovidio nelle Metamorfosi, lo scudo prestato da Atena a Perseo risulta un “oggetto tecnico” – ossia “distaccabile” da chi l’ha prodotto, secondo la definizione di Gilbert Simondon – che da un lato protegge il corpo di Perseo e nasconde il suo sguardo da quello di Medusa, dall’altro gli permette di vederla indirettamente, riflessa sulla propria lucida superficie, e perciò di esporsi per decapitarla. A dare a Perseo la vittoria è insomma il chiasma tra le funzioni schermiche di proteggere ed esporre e quelle di mostrare e nascondere esercitate dallo scudo. In tal senso, esso mette in particolare evidenza come gli schermi in generale – di cui gli scudi vanno considerati varianti particolari – riguardino la visione e la protezione insieme, come a suo modo aveva ben intuito Siegfried Kracauer, che in Film: ritorno alla realtà fisica (1962) scrive infatti:
La morale del mito [di Perseo] è che noi non vediamo, e non possiamo vedere, le cose veramente orride, perché la paura ci paralizza e ci rende ciechi; potremo sapere l’aspetto che hanno soltanto guardando immagini che ne riproducono fedelmente l’aspetto. […] Ora, di tutti i mezzi esistenti, il cinema soltanto rispecchia veramente la natura. Ecco perché ne dipendiamo per vedervi riflesse cose che ci trasformerebbero in pietra se mai le incontrassimo nella vita reale. Lo schermo cinematografico è il lucido scudo di Atena.
Ma perché dovrebbe valere solo per tale schermo quanto affermato dall’ebreo tedesco Kracauer in quel libro scritto nell’esilio newyorkese? Nelle mie ricerche sugli usi pre-cinematografici proprio del termine screen – qui non mi riferisco dunque a quelli, ben più antichi, dell’italiano “schermo” – nella sua duplice valenza di protezione e di visione, mi sono imbattuto in un trattato intitolato The Microscope Made Easy, pubblicato per la prima volta nel 1742 da Henry Baker, naturalista, letterato, poligrafo e volgarizzatore, membro della Royal Society di Londra. Come annuncia il suo titolo, il sesto capitolo di questo trattato è dedicato a “The Solar, or Camera Obscura Microscope”, di cui una sorta di parafrasi comparirà nel 1765 nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert alla voce microscope solaire.
Sin dalla prima pagina del capitolo, il termine screen viene utilizzato per indicare una delle componenti fondamentali del dispositivo ottico descritto. Lo schermo del microscopio solare riveste infatti una funzione dichiaratamente scientifica coniugata a spiccate finalità divulgative, che mira a raggiungere anche attraverso una certa spettacolarizzazione della natura, di cui tale schermo può proporre un’osservazione collettiva ingigantita ma pur sempre protetta. Insomma, non così dissimile da quella che Kracauer vede assicurata dallo schermo cinematografico.
Queste considerazioni non sembrino troppo “filosofiche”. Non lo sono più di quelle contenute in un altro trattato – dedicato, questo, alla scherma – composto, sempre in area padana, non molti anni dopo la realizzazione della “rotella” di Carlo V. S’intitola Lo Schermo (1575) – perché appunto così era designata quella disciplina –, è composto in forma di dialogo tra Luigi Gonzaga – detto “Rodomonte” per la sua straordinaria forza fisica – nato a Mantova nello stesso anno di Carlo V nonché suo capitano imperiale, e Ludovico Boccadiferro, filosofo aristotelico bolognese, ed è firmato dal maestro di scherma Angelo Viggiani dal Montone, considerato l’ultimo dei grandi esponenti della scuola bolognese di “spada da fianco”, che terminò il trattato nel 1551, ma lo volle pubblicato solo 15 anni più tardi, quando però era già scomparso. L’interesse di questo trattato è confermato dalle sue recenti traduzioni parziali in francese e in inglese.
Tra i molteplici motivi di tale interesse, a mio parere vi è che le riflessioni di Viggiani sulla disciplina che egli chiama “schermo” (e che, ricorda, “significa riparo o difesa”) sono collocate all’interno di quelle, più ampie, sulla diade offendere/difendere e quest’ultime ricondotte a loro volta addirittura a un altro e ben più vasto binomio: quello di natura e cultura, la cui enorme portata filosofica, e quindi anche antropologica, è sottolineata dagli interventi, nel dialogo, appunto del filosofo Ludovico Boccadiferro. La tesi di Viggiani consiste nell’affermare che l’atteggiamento di “offesa” sia da ricondursi alla “natura” e dunque da ritenersi primo, ossia preceda quello di “difesa”, che si deve invece a quanto nel dialogo vengono chiamati “arte e magistero”, ossia alla cultura.
Non si tratta soltanto di sostenere che l’uomo è naturalmente portato ad avere un atteggiamento aggressivo, mentre deve imparare ad assumerne uno difensivo: mediante la scherma, per esempio. Più interessante risulta osservare che, nel dialogo, il primato dell’offesa sulla difesa è riconosciuto già nelle relazioni degli esseri umani col proprio ambiente: «Se prima non fosse stato esso uomo combattuto dal caldo e dal gelo, offeso dal sole, dalla nebbia, dalla pioggia, dalla grandine, dai venti e da altre assai cose offensive, non si sarebbe egli affaticato in coprirsi di panni e di vestimenti, né tante fatiche e spese avrebbe egli preso per fabbricare case e capanne, le quali senza l’offese dette non gli erano per alcun modo di bisogno». Il trattato di Viggiani abbozza così le linee di fondo di quella che oggi potremmo chiamare una genealogia antropologica dello “schermire” – ossia delle pratiche umane di “farsi schermo” o di “fare schermi” a scopo variamente difensivo o di protezione – nella quale affonderebbero le radici della socialità umana stessa, perché dalle “offese” dell’ambiente, spiega, non ci si può difendere da soli.
Ecco che, come promettevo all’inizio, parlare dello scudo di Carlo V ci permette di arrivare a parlare di come le funzioni schermiche abbiano cominciato a intessere i rapporti degli umani con l’ambiente circostante addirittura sin da prima della comparsa dell’homo sapiens. La studiosa di preistoria Catherine Perlès spiega infatti che, già all’epoca della glaciazione Mindel (tra 450.000 e 300.000 anni fa), l’uomo, non ancora sapiens, per scaldarsi, illuminare e difendersi dagli animali selvatici manteneva nelle sue abitazioni dei focolari che potevano includere la «costruzione di ripari di pietra o d’osso», ossia di schermi, appunto. Peraltro, è molto significativo mettere l’accento su espressioni come “farsi schermo” o “farsi scudo” a proposito della questione del primato della natura sulla cultura che in precedenza abbiamo sentito sollevata dal trattato di Viggiani. Parlare della funzione del nostro corpo di “fare scudo” significa infatti evidenziare come il presunto “poi” della cultura umana – che realizza e nomina “oggetti tecnici” quali appunto gli scudi – retroagisca sul mitico “prima” della natura, venendo a designare una certa azione esercitata da noi stessi sul nostro corpo col nome dell’oggetto tecnico prodotto per esercitarla al nostro posto.
Parlare di scudi oggi, a distanza di quasi 500 anni dalla realizzazione di quello disegnato da Giulio Romano per Carlo V, significa dunque parlare di “oggetti tecnici” prodotti dagli esseri umani, quali protesi accrescitive delle capacità dei loro corpi, al fine di rendere più efficaci e maneggevoli le funzioni schermiche che gli umani stessi hanno potuto scoprire appunto grazie ai propri corpi: quelle funzioni che – esercitate da questi stessi corpi sotto forma di “gesti-barriera” o da loro protesi come gli schermi elettronici o digitali che ci hanno permesso di comunicare col mondo anche da confinati – sono state essenziali per contrastare persino la pandemia di Covid-19. In tal senso lo scudo da parata di Carlo V ci racconta preziosi elementi di verità su tutti gli schermi. Ci parla, insomma, anche dei nostri.
Riferimenti bibliografici
H. Baker, The Microscope Made Easy, R. Dodsley, Londra 1742, 1743.
F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme. Tome 1. Les structures du quotidien, Armand Colin, Parigi 2022.
F. Casetti, “Scene primarie”, in M. Carbone, A.C. Dalmasso, J. Bodini, I poteri degli schermi. Contributi italiani a un dibattito internazionale, Mimesis, Milano 2020.
B. Furlotti, G. Rebecchini, Giulio Romano. La forza delle cose, con la collaborazione di Antonio Geremicca, Marsilio Arte, Venezia 2022.
S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, Milano, Il Saggiatore, 1962.
C. Perlès, Preistoria del fuoco [1977], trad. it. di M. Botto e D. Gibelli (e, per l’Appendice all’edizione italiana, di A. Mazzarello), Einaudi, Torino 1983.
G. Simondon, Sur la technique (1953-1983), P.U.F., Parigi 2014.
A. Viggiani dal Montone, Lo schermo, Giorgio Angelieri, Venezia 1575.
Giulio Romano. La forza delle cose, a cura di Barbara Furlotti e Guido Rebecchini, 8 ottobre 2022 – 8 gennaio 2023, Palazzo Te di Mantova.