Gillo_Dorfles

Gillo Dorfles non è stato un intellettuale italiano; è stato un intellettuale europeo. E non solo perché era nato nella Trieste austro-ungarica, multiculturale e multietnica, ma anche a motivo della sua meritoria opera di aggiornamento, divulgazione e diffusione dei temi e delle metodologie del pensiero scientifico e filosofico europeo (dall’antropologia alla psichiatria, dalla psicologia della percezione alla stessa estetica) da lui svolta attraverso i suoi libri dagli anni cinquanta agli anni settanta dello scorso secolo (e senza attendere le traduzioni italiane).

La sua figura va ben oltre quella del critico, dello storico delle arti e dell’artista in prima persona: animato da quella curiositas il cui solo limite – ma straordinariamente dilatato – si è rivelato quello biologico-naturale, Dorfles è stato l’acuto e a tratti sulfureo analista non soltanto dei linguaggi artistici dall’informale alla body-art, ma anche dei comportamenti e dei costumi sociali nell’epoca del capitalismo consumistico imperante, analisi condotta con la stessa spietata acribia dell’entomologo alle prese con i suoi insetti inchiodati agli spilli. E non è certo un caso che egli abbia indagato non tanto l’“essenza” dell’arte moderno-contemporanea quanto i modi del suo apparire, la sua difforme, eteròclita fenomenologia.

Maestro e battistrada indiscusso nella decifrazione delle oscillazioni del gusto, dei nuovi riti e dei nuovi miti della nostra contemporaneità sospesa tra artificio e natura (per evocare alcuni suoi fortunatissimi titoli, diventati quasi locuzioni proverbiali), Dorfles si avvale di una strumentazione esegetica che mette a buon frutto risultati e indicazioni provenienti dalla linguistica e dalla psicanalisi, dalla semiotica e dall’antropologia. Sempre, però, attento alla loro concreta efficacia interpretativa, con l’oggetto da analizzare ben presente allo sguardo indagatore, sia esso l’opera d’arte, l’oggetto di design, il grattacielo o l’uso della punteggiatura. In fondo si potrebbe dire che Dorfles si occupa di quelle che Ernst Jünger chiamava – ovviamente in tutt’altro orizzonte diagnostico e interpretativo – «le grandi finzioni del nostro tempo», tanto più che le sue analisi non nascondono la dialettica immanente e a suo modo inaggirabile dei processi culturali che ci coinvolgono e dei quali tuttavia sempre meno ci sentiamo protagonisti, superati da forze anonime e inscalfibili: e si pensi solo alla crescente rapidità dell’innovazione tecnologica che tanto ormai insopportabile feticismo alimenta. Dorfles infatti riconosce che negli assetti adulterati, nelle situazioni contraffatte, insomma nella produzione a getto continuo di quelli che lui chiama “pseudoeventi”, i risvolti ingannatori e feticistici si intrecciano inestricabilmente agli aspetti emancipatori. Analoga osservazione può valere per il kitsch, di cui, come noto, Dorfles è stato uno dei primi analisti. Esso fa ormai parte del nostro mondo e dei nostri comportamenti, del nostro paesaggio quotidiano e della nostra geografia culturale. Ma ciò significa che si è integrato anche alla creatività artistica, ad esempio attraverso il gioco della citazione ironica che si appropria del cattivo gusto riformulandone i parametri linguistici, formali, contestuali: da Andy Warhol a David Lynch.

Ne siano cause o ne siano effetti, spinte endogene o pressioni contestuali, due fenomeni si affiancano strettamente alle circostanze di artefattualità in cui prendono vita simulacri e “fattoidi”. Da una parte, l’iperspecializzazione in sviluppo esponenziale non solo delle tecnologie ma anche delle connesse competenze e dei saperi settoriali, sempre più frammentati e reciprocamente isolati, nonostante i discorsi alla moda su una multi o interdisciplinarietà più retoricamente invocata che seriamente realizzata. Dall’altra, l’innegabile appiattimento su un modello di storicità in cui la tradizione ha sempre meno valore a vantaggio di un eterno presente vissuto come flusso ininterrotto che ingoia senza metabolizzarlo il passato e anticipa senza progettarlo il futuro.

Ma c’è un altro motivo importante che corre più o meno sottotraccia in queste analisi di Dorfles. Dal momento che la quasi totalità delle pratiche quotidiane attorno alle quali ci adoperiamo non può esimersi da un rapporto imprescindibile con la tecnica − diventata ormai l’orizzonte autocentrato e insuperabile del sistema, l’autorità che in ultima istanza decide − ecco allora emergere il carattere magico, fideistico-religioso, il tratto idolatrico con il quale l’imperio tecnologico − con la sua penetrazione sempre più evidente, pervasiva, tendenzialmente incontrollabile − mostra la sua facies più inquietante.

Ma Dorfles resta un inguaribile razionalista, tanto più quanto più attentamente osserva e analizza il fondo mitologico e le proiezioni improprie della nostra esperienza mondana. Un razionalista inguaribile ma convinto di non dover affatto guarire. Dunque la descrizione oggettiva e fattuale della situazione è costantemente accompagnata da un deciso, risoluto atteggiamento critico e insieme propositivo: dobbiamo recuperare l’“intervallo perduto” (un altro suo titolo) e prendere coscienza degli automatismi inconsci che danno inevitabilmente luogo alla feticizzazione del medium tecnologico, dobbiamo acquistarne quella consapevolezza che sola può evitare un atteggiamento ciecamente automatico. Facile a dirsi, difficile a farsi. E questo lo sa bene anche Dorfles.

D’altra parte è pur vero che tale distinzione non fa altro che riflettere la costitutiva, forse inaggirabile ambivalenza della megamacchina tecnologica, che si esplica, appunto, sotto forma di un intreccio difficilmente sbrogliabile di emancipazione e regressione, liberazione e dipendenza. Siamo insomma di fronte al carattere duplice della tecnica: da una parte, disincanto, desacralizzazione, razionalizzazione volta all’efficacia produttiva; dall’altra, fattore mitopoietico, induttore di ritualità, insomma paradossale re-incanto del mondo. Dorfles, che non era né un apocalittico né un integrato, sapeva bene che soluzioni palingenetiche non ce ne sono: raccomanda allora quantomeno di avvicendare l’atteggiamento critico a quello omologante e compulsivo, la sorveglianza all’abbandono, e questo paso doble bisogna inventarselo giorno per giorno.

Riferimenti bibliografici
G. Dorfles, Il kitsch, Mazzotta, Milano 1990.
Id., Il divenire delle arti. Ricognizione nei linguaggi artistici, Bompiani, Milano 2002.
Id., Nuovi riti, nuovi miti, Skira, Torino 2003.
Id., Artificio e natura, Skira, Torino 2003.
Id., Ultime tendenze dell’arte oggi, Feltrinelli, Milano 2015.

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