«Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo» (Canetti 2015, p. 17).

Ma, per quanto si voglia evitare, prima o poi l’estraneo ci tocca. Ciò che affascina nelle tele di La Tour deriva dalla rappresentazione di questo tocco. Dinanzi a molti dei suoi quadri ci troviamo, nostro malgrado, ammutoliti e soli, rabbrividendo a tu per tu con istanti di ignoto congelati. Così ci pare che la rilevanza dell’esposizione milanese (Palazzo Reale, riaperta dal 28 maggio fino al 27 settembre) non si lasci più misurare secondo le categorie proprie agli eventi culturali. Il grande successo di avere portato per la prima volta in Italia numerosi dipinti del pittore, le prospettive storico-artistiche sulla raffigurazione del lume artificiale nell’Europa post-caravaggesca; tutto ciò sembra scivolare in secondo piano. Dopo la lunga quarantena, nell’incertezza del domani, la mostra riapre e ci dà l’occasione di riascoltare la lezione di La Tour con un orecchio maledettamente più fino. Poiché nel frattempo, in modo tragico e banale, l’estraneo ci ha toccato e ha immerso le nostre contingenze in fosche evanescenze barocche dove si trascolorano i confini tra immagine e realtà, notte e giorno, passato e presente. La disgrazia pandemica ci rende contemporanei ad alcuni strati dell’esperienza storica che La Tour ha già registrato; la provvisoria chiusura al pubblico dell’esposizione ci introduce agli enigmi della sua tradizione. Ammutoliamo, dunque: l’ignoto ci si fa nuovamente incontro attraverso l’insensato cicaleggio di un’estasi della storia.

Un romanzo di Michon ricostruisce nei minimi dettagli la genesi di un quadro inesistente e la biografia di François-Élie Corentin, il suo altrettanto immaginario pittore. Il quadro raffigura i componenti del Comité de salut public, ma, trascendendo il soggetto storico, il genio “irreale” di Corentin vi ha immortalato la «Storia in persona, in undici persone […] perché la Storia è terrore allo stato puro» (Michon 2018, p. 129). La consistenza fittizia di Corentin fa da perfetto pendant alle sorti di La Tour. Mentre la figura del primo nasce e si staglia – verrebbe da dire, “necessariamente” – tra i fulgori abbaglianti della Storia, il destino del secondo è legato alle sue potenze notturne. A suo tempo, La Tour fu un uomo ricco e celebre. Ebbe una fiorente bottega, cinque apprendisti. Una moglie nobile, dieci figli. Visse negli agi della Lorena; a Lunéville attirava invidie. Durante la Guerra dei trent’anni la città fu saccheggiata e data alle fiamme, due volte. La bottega brucia, la peste si propaga. La Tour è sempre più famoso; sul finire del 1639, un documento lo cita come pittore ordinario del re. Otto anni dopo, di dieci figli ne rimangono tre. Il pittore muore nel 1652, per un’epidemia di pleurite.

Nel giro di breve e per quasi tre secoli “Georges de La Tour” cessa di esistere in modo assoluto. Come molti dei suoi quadri, la sua memoria si estingue tra le fiamme del passato. Sarà soltanto nel 1915 che lo storico dell’arte Hermann Voss lo riesumerà dalle ceneri e lo accosterà nuovamente a tre dipinti. Muovendo da questa prima divinazione, La Tour riemerge lentamente dal nulla della Storia; gli studiosi gli attribuiscono altre opere, ricompaiono le tracce documentarie della sua vita al secolo. Dal dimenticatoio egli assurge rapidamente tra i santissimi della pittura francese. Il suo nome viene innalzato fino alle divine sfere della Grandeur in cui gravitano i Poussin, gli Ingres, i Monet, i Cézanne… Da queste rarefatte altezze si può intendere l’osanna di Thuillier: «Solamente la storia dell’arte è riuscita in questo miracolo: restituire, a partire da un semplice nome, uno dei più grandi pittori del XVII secolo» (Cappelletti, Salomon 2020, p. 17). L’amorevole cura degli storici ha sussurrato al passato «Lazare veni foras» e, dal rosso sipario dell’oblio, La Tour è rimontato sul palco del reale, fresco e circonfuso di luce come un Neonato, a reclamare il suo trionfo presso il pubblico contemporaneo.

Il desiderio di disciogliere nel corpo singolare dell’evento lo spirito universale della Storia è profondamente radicato in ogni studio storico. Per abitudine, quando guardiamo al passato, ci troviamo a credere alla vecchia solfa che ripete “la verità è figlia del tempo”, e quindi, in automatico, ci mettiamo sulle tracce del padre, della causa prima, del colpevole: di tutte quelle forze motrici in cui vogliamo scorgere l’origine della Storia. Un’altra abitudine ci induce a pensare che il concetto di Storia implichi la libera volontà degli uomini, e siamo pronti a riconoscere il culmine di questa volontà dove il potere sembra esprimersi al massimo grado: nel sovrano assoluto, nel condottiero, nel genio scientifico o artistico. La Storia con la S maiuscola – quella che narra le imprese delle Eroiche Personificazioni dello Spirito del Tempo – si fonda, bene o male, su queste abitudini, su questi classici pilastri: verità e simbolo.

Con i suoi quadri e con la sua scomparsa, La Tour ci indica una regione sottratta ai domini diurni e paterni della Storia. «Il terrore puro» delle potenze storiche viene messo a riposo e, in un attimo di stasi, riflette sulla materia inerte su cui si esercita. Da questa stessa regione riaffiora il nome del pittore e per questo La Tour non si presta facilmente a essere inondato di luce e ricoperto di onori; la sua riscoperta è piuttosto gravida d’ombre. Nel catalogo dell’esposizione, queste ombre mostrano il proprio riflesso in un lungo saggio di Dimitri Salmon che snocciola le incertezze e gli affanni attraverso cui la storia dell’arte ha costruito il suo nuovo mito.

Presi dall’entusiasmo e dalla foga febbrile di restituire La Tour alla sua “originaria” grandezza, gli storici d’arte si sono (giustamente) accaniti per distinguere i quadri originali dalle copie, gli autografi dalle prove di bottega, per smascherare un autentico “La Tour” sotto le mentite spoglie di un’altra firma d’autore. Salmon chiama «valzer delle attribuzioni» questo avanzare sincopato delle scoperte, e insinua il dubbio che «“l’avventura La Tour” sia stata costruita tanto su “colpi di genio” quanto su errori di giudizio, sviste di ogni genere e altre peripezie» (ivi, p. 83).

Questo dubbio ci suggerisce che la tradizione postuma di La Tour non possa immaginarsi nei colori caldi e miracolosi del Neonato, ma piuttosto nella scena caotica della Rissa tra i musici mendicanti. Al centro del quadro, due suonatori si azzuffano per ottenere uno spazio di maggiore visibilità al proprio spettacolo. Uno storico spruzza le proprie ragioni in faccia all’altro, nel tentativo di guarire la sua (pretesa) cecità e costringerlo a distinguere l’autentico dal falso, il grande dall’abietto. All’estrema destra, un violinista – che sembra attirare le poco lodevoli attenzioni di un quarto personaggio – ammicca verso gli osservatori cercando la loro complicità: getta su di noi l’occhiata socratica e il sorriso inebetito dello storico disilluso.

Del tutto estranea alla contesa, in posizione arretrata sul lato sinistro del quadro, appare la figura di un’anziana mendicante. La forza con cui la sua immagine ci urta è tale che l’equilibrio del quadro vacilla e tutta la scena corre il rischio di precipitare nei lembi divaricati della sua bocca. La carica espressiva del suo volto è pari a quella di un teschio. Essa è un’immagine della pura caducità. La vecchia si puntella a un bastone per non crollare, i suoi occhi strabici – che inizialmente sembrano fissarci per implorare aiuto – sono in realtà rovesciati verso l’alto, come se fosse cieca, o pazza. La sua supplica silenziosa non si rivolge a qualcuno in particolare; è una supplica destinata al nulla della massa buia che la circonda. «Col suo corpo prostrato […] senza liberare subito la sua voce dal silenzio per lasciar meglio parlare l’immobilità del suo atteggiamento, il supplice annuncia il proprio stato di lutto, prefigura la propria morte, assume la condanna e si abbandona ad una attesa che non attende nulla; così purificato inizia» (Blanchot 2015, p. 112).

Questa descrizione cattura involontariamente la situazione e il carattere enigmatico dei soggetti dipinti da La Tour. Essi vengono colti come supplici prima del loro inizio, in uno stadio incompiuto di raccoglimento, dove la presenza a sé – la coscienza di essere un individuo determinato – si trova ancora sfilacciata nei processi primitivi dell’organismo, in quel passato immemore che ci è intimamente estraneo. Quignard scrive che la luce di La Tour sorprende i corpi umani nei loro momenti di inconsapevole solitudine: nell’estasi, nello stupore, nell’insonnia, nello sfinimento; nei momenti in cui essi «tacciono davanti alla propria storia» (Quignard 1991, p. 20).

Si è davvero soli quando si è dimentichi di sé, ma non del tutto disciolti nelle masse informi del reale. La Tour conosce un vasto repertorio di segni per rappresentare la solitudine degli uomini: i denti scoperti; lo sguardo vacuo (o cieco) che, attraverso strati di vuoto, cerca di riguardarsi; le giunture bolse e spossate, chiamate a sostenere dei corpi che, privi di ogni volontà, paiono sul punto di crollare al suolo come gelatina; la sensibilità inconscia delle mani intrecciate, mollemente avvolte o abbandonate sulle cose, schiuse davanti al calore di una fiamma. Ma a quali potenze si votano le creature di La Tour? Se non alla memoria dei posteri, a chi dedicano il loro lamento e la loro supplica?

Osservando i quadri notturni del pittore, la risposta a queste domande suona duplice: allo sfondo di tenebra che li circonda e alla fiamma che li illumina. «Il fondo delle tele di Georges de La Tour non è nero, o bruno, o grigio perla, è: “Noi muoriamo”» (ivi, p. 64). La tenebra è la massa d’oblio che s’accumula all’infinito nel passato. «Più ci si avvicina al fuoco, più si contempla come esso si riassuma nella quantità di materia che viene a mancare nella sua fiamma. In ciò che fa la fiamma più viva, la brace più rossa, lo splendore più luminoso e che diviene sempre più “nulla” in essa. […] È questo “più nulla” che grida nel crepitio. È questo “più nulla” che è bianco al cuore delle fiamme e a cui non si può avvicinare il viso senza urlare di dolore. È Dio», o la natura (ivi, p. 76).

Il fuoco è la massa dei corpi che si consumano all’infinito nel presente. Tra queste due masse che si ingrossano eternamente, evocati dalle tenebre del passato e dalla sfera materna della storia, i soggetti di La Tour si avvicinano alla fiamma come minuscoli spettri infreddoliti, e, prima di venire risucchiati nel buio, in assoluta solitudine, sospendono per un baleno il continuo e terribile commercio tra le due masse. I quadri di La Tour sembrano consegnarci questa lezione d’oblio: il tocco dell’estraneo – l’evento – non ci sfiora dal futuro che genera, poiché il possibile ignoto ci tocca soltanto quando il presente, senza saperlo, esaudisce la supplica che il passato gli ha consegnato; quando le reciproche solitudini di chi è stato e di chi ancora rimane si toccano per un istante.

Riferimenti bibliografici
M. Blanchot, La conversazione infinita. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», Einaudi, Torino 2015.
E. Canetti, Massa e Potere, Adelphi, Milano 2015.
F. Cappelletti, T. C. Salomon, a cura di, Georges de La Tour. L’Europa della luce, Skira, Milano 2020.
P. Michon, Gli undici, Adelphi, Milano 2018.
P. Quignard, George de La Tour, Flohic, Parigi 1991.

Georges de La Tour, L’Europa della luce, a cura di F. Cappelletti e T.C. Salomon, Palazzo Reale, Milano 28 maggio – 27 settembre 2020. 

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