Gli amici che ti fai quando hai sedici, diciassette, vent’anni
hanno una qualità, una specialità che nella vita sarà poi irripetibile.
Avrai altre amicizie, anche molto qualificate,
ma qualcuno che ti fosse testimone quando potevi ancora essere tutto…
Quello non si ripete.
Michela Murgia

Libertà. L’adolescenza è tantissime cose ma è, sopra tutte e inderogabilmente, pura e assoluta libertà. Libertà di parola, pensiero, movimento. Libertà come sperimentazione assidua, scoperta elettrizzante, diritto alla vaghezza e all’erranza. Libertà e quindi il bisogno di fare, andare, “a caso” e “a zonzo”, come e dove suggerisce l’intuito. Spesso controcorrente, sempre al di là della logica degli altri e lontano dai luoghi battuti, distruggendo per ricostruire e comunque scegliendo, in un istante, di buttar giù tutto di nuovo. Di cambiare idea e rideterminare ogni volta la direzione. Perché libertà è in fondo l’atto, inconsapevole ma saggio, di una rivendicazione: è mantenere aperto lo sguardo, credere con fermezza nell’indefinibilità essenziale dell’esistenza quale suo più autentico valore.

Se libertà è dunque questo – la postura emotiva di chi va fiduciosamente incontro all’“esperienza del subbuglio”, certo di ricavarne, a prescindere dagli esiti, un senso segreto di sé e del mondo – l’età giovane è lo spazio in cui meglio si afferma la rarità di una tale condizione, il momento eccezionale della vita in cui lo schianto con la contingenza è un desiderio totalizzante che assorbe tutto il resto e che, solo dall’interno e nel profondo del corpo da cui si origina, può rivelarsi convincente e comprensibile. Nessun adulto può dirsi libero in quel preciso e transitorio modo di essere liberi. Nessuno che sia ormai strutturato in un ruolo può, dopo anni, avanzare la pretesa di spiegarlo.

Sembrano averlo intuito i fratelli Bill e Turner Ross, esperti documentaristi che, da dichiarati fautori dell’impossibilità di parlarne, approdano al cinema di finzione firmando un film sulla Gen Z destinato a lasciare il segno. Un road movie dall’estetica anomala e dirompente dove, alla voluta assenza di forma, subentra il supporto di un flusso incredibilmente sciolto di immagini potenti, evocative e poetiche, sporche e perciò sensazionali, sfuggenti, nel rispetto della libertà che motiva i protagonisti, che li spinge fuori casa e che si vuole mostrare, registrare, così com’è.

Gasoline Rainbow è un’opera e un’operazione cinematografica immensa. La struttura narrativa è scontornata, frammentaria, mancante di un vero e proprio disegno drammaturgico, di una compattezza e di un crescendo atti a dare una chiara consequenzialità agli eventi. La macchina da presa sta insieme ai personaggi, imita le loro movenze istintuali, e si lascia guidare dalle vibrazioni che emanano sempre nel riguardo del mistero inafferrabile che li governa. L’immediatezza della messinscena dà al racconto l’impronta di un reportage in cui tutto ciò che si vede è così vero che sembra essere stato rubato, è a volte fuori fuoco e nel complesso poco lineare. Strambo, confuso, “aperto” come aperta appare la vita quando è fresca, al pari dei cinque amici appena diplomati che a bordo di un mini-van partono dal “buco di culo” di Wiley, nell’Oregon, alla volta di una meta insieme fisica e simbolica: la costa del Pacifico, il mare, la famigerata e imperdibile “festa alla fine del mondo”.

Guardando al registro espressivo, la libertà è, forse ancor prima che traccia tematica, cifra stilistica e respiro del film. Gasoline Rainbow è ricco di contenuti e spunti intelligenti. Affronta con sincerità questioni d’interesse contemporaneo, e le vicende private dei singoli ragazzi ci coinvolgono empaticamente. Tuttavia, la sua unicità eccede la dinamica dell’intreccio, non riguarda il rimpasto originale dei principali elementi del coming of age nel macro-genere del viaggio e della strada, e coincide invece con l’azzardo autoriale di realizzare e non raccontare – testare e non solo immaginare – un’esperienza ipnotica, reale, tangibile, di libertà. I fratelli Ross sfruttano al meglio le possibilità del mezzo e confezionano un prodotto ibrido e disomogeneo, strutturalmente debole (generico, improvvisato) ma forte nel modo in cui il disordine o la sfumatura non si presentano mai fini a se stessi e, anziché “coprire”, “rimediare” agli accenni e alle irregolarità della trama, ai buchi e alle sospensioni, li giustifica e utilizza come veicolo del significato della storia. La costruzione narrativa è indisciplinata in virtù delle premesse, e la pellicola costituisce un differimento dello spazio-tempo ordinario, diventa una dimensione distaccata in cui le coordinate non esistono perché non possono esistere.

Tony, Micah, Nichole, Nathaly e Makai si percepiscono come alieni nel contesto familiare e sociale dal quale provengono e verso cui, di fatto, non esprimono particolare affezione o appartenenza. Le relazioni disfunzionali, l’abbandono dei genitori che ha generato un passaggio di responsabilità avventato tra grandi e piccoli, la repressione dei sogni in un paesino che non lascia intravedere una prospettiva di futuro, hanno causato la dispersione dei presupposti e dei riferimenti necessari a una maturazione leggera, indolore, pacifica e coerente. Sono degli outsiders, corpi-non-persone. E il viaggio – sul furgone, in treno, a piedi, in barca, da soli o in compagnia di altri “randagi” – riflette il percorso sregolato e dagli approdi potenzialmente infiniti di chi, appunto, è ancora senza posto: di chi è ancora niente e può ancora essere tutto.

Ecco, è nella capacità di dare consistenza a questo ancora che risiede la chiave di lettura di Gasoline Rainbow, la qualità di quel taglio e degli espedienti che lo rendono molto più simile a un esperimento amatoriale che a un film. L’ancora si manifesta nel vuoto e nella sospensione caratteristiche dell’adolescenza, che non sono mai un sintomo negativo d’incompletezza o un arresto permanente, e che derivano, piuttosto, dal sentirsi normalmente scombussolati dall’infinità del possibile. L’incertezza che attraversa i volti dei protagonisti, la banalità di certi discorsi, il passo lento e lo sguardo teso che li accompagnano nel paesaggio maestoso d’America, le riflessioni intime affidate al fuoricampo, definiscono puntualmente il senso di questo spaesamento. Ciascun personaggio è in conflitto con un vissuto-trappola da elaborare a distanza e da cui riscattarsi. Fugge da qualcosa che lo opprime ricercando l’abbraccio clemente del mondo, e vuole a tutti i costi arrivare alla festa della libertà che lo attende. Sa che la raggiungerà, nonostante dubbi e imprevisti, sfidando la paura, di incontro in incontro, trasformandosi ed evolvendo dal giorno alla notte, perché è ciò che la sua età consente e richiede: andare solo avanti, sempre più in là varcando infine, ancora con entusiasmo e speranza, la soglia di quella successiva.

Tony, Micah, Nichole, Nathaly e Makai non sanno cosa li aspetta, non hanno progetti. La loro unica ambizione è quella di uscire da un ambiente in cui non si riconoscono né si sentono riconosciuti, lasciarsi accarezzare dalla brezza che entra dal finestrino e avere la certezza, contemplando un tramonto, che la luce è un posto raggiungibile. L’esplorazione del territorio è parallela alla conoscenza di sé e ad accentuarne il realismo interviene l’inesperienza degli interpreti non professionisti, privi di una sicurezza scenica oltre che privati di una sceneggiatura data e conclusa, e così liberi di agire di pancia, e di dare un surplus di genuina magia alla narrazione.  

In dirittura d’arrivo, dopo aver macinato oltre cinquecento chilometri, il gruppo scopre che la festa a cui desideravano partecipare è stata appena interrotta dalla polizia, e vede gli ultimi temerari costretti a spopolare il capannone che la ospitava. Delusi e increduli valutano le alternative, e giungono alla conclusione che non hanno intrapreso quel viaggio per essere fermati, che “non era quello il punto”, e che “la fine del mondo succederà sempre un’altra volta”. Si separano allora dagli sconosciuti che li avevano accompagnati fino a lì, continuano a camminare e, al buio su una spiaggia, Makai lamenta di essere stanco, borbottando l’esigenza (molto metaforica) di un paio di scarpe nuove per quando tornerà a casa. Il mare è vicino. Al chiaro di luna, il tremore dell’acqua diviene un luccichio. Più avanti hanno acceso un grande fuoco, e i cinque avanzano di spalle verso la gente che si è radunata tutt’intorno. Il viaggio è finito, ne comincia all’alba un altro, quando i loro primissimi piani si imprimono in successione sullo schermo, come a segnalare che qualcosa d’importante e irripetibile è accaduto e va ricordato.

Gasoline Rainbow è il ritratto di una gioventù imperfetta come tutte quelle che l’hanno preceduta e che verranno. Non ha la presunzione di giudicarla e categorizzarla nel bene o nel male, e pertanto non si preoccupa di offrirne un’esatta definizione. Non manca, inoltre, di una sottile critica di alcuni aspetti dell’attualità, che si declina nell’opinione sull’emergenza climatica dei personaggi, nelle conversazioni sulla piaga della deportazione o si inserisce, ad esempio, nelle battute amare incentrate sulla violenza razzista della polizia americana.

Eppure, sebbene il lavoro complessivo possa essere valutato come ottimale, personalissimo e raffinato persino nelle particolarità più “grezze”, il progetto può dirsi straordinario soprattutto perché, senza ricorrere all’artificio e con un inusuale tocco delicato, riesce a riprodurre l’incanto di un primo tempo della vita al quale, in massa, aspiriamo malinconicamente di regredire. A rievocare il dono impagabile dell’innocenza e della solidità di certe amicizie, nate in quel momento, e che non dimenticheremo. A far vibrare all’unisono corde dormienti, riportandoci a una condizione percettiva e a un sentimento che oggi non è semplice riattivare. È un paradosso, ma è il bello del grande cinema.

E noi che di proiettarci solo in avanti abbiamo perso l’abitudine, vivendo di “se” rivolti al passato e tormentandoci su ciò che sarebbe potuto essere, avvertiamo sulla pelle, nelle ossa, quel senso di libertà perduta che l’intellettuale Michela Murgia ha perfettamente descritto in un’intervista. La libertà di ragionare di nuovo al contrario, vivendo di “se” rivolti al presente già mezzo domani, e interrogandoci all’improvviso su ciò che potrebbe essere ancora. Siamo liberi, per tutta la durata e sui titoli di coda del film. Come Tony, Micah, Nichole, Nathaly e Makai. Liberi di poter ancora essere tutto.

Gasoline Rainbow. Regia: Bill Ross IV, Turner Ross; sceneggiatura: Bill Ross IV, Turner Ross; fotografia: Bill Ross IV, Turner Ross; montaggio: Bill Ross IV, Turner Ross; interpreti: Tony Abuerto, Micah Bunch, Nichole Dukes, Nathaly Garcia, Makai Garza; produzione: Department of Motion Pictures, Mubi, XTR; distribuzione: Mubi; origine: Stati Uniti d’America; durata: 110’; anno: 2023.

Tags     adolescenza, mubi, viaggio
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