Non c’è l’uomo nelle fotografie di Gabriele Basilico. La sua ricerca artistica ha sempre privilegiato l’indagine del paesaggio antropizzato, spogliato dalla figura umana. È questo che accade nei 200 scatti della mostra Metropoli, articolata in cinque grandi capitoli: da Milano. Ritratti di fabbriche a Sezioni del paesaggio italiano, da Beirut a Le città del mondo a Roma. È il vuoto, il soggetto delle sue fotografie:
«Basta la presenza di un uomo a ridare all’architettura il valore di sfondo, a dare al vuoto il senso drammatico di un’assenza, mentre l’assenza dell’uomo toglie al vuoto la dimensione d’angoscia e fa del vuoto quello che veramente è. Questo perché il vuoto riempie se stesso e diventa soggetto in sé» (Basilico 2007, pp. 100-101).
Il vuoto era ciò che Benjamin trovava anche nelle fotografie di Atget, in cui la scomparsa dell’uomo sostituiva su tutta la linea il valore espositivo dell’immagine a quello cultuale, che proprio nell’immagine del volto dell’uomo trovava una sua ultima resistenza, l’ultima emanazione dell’aura (Benjamin 2000, p. 28). In Piccola storia della fotografia su Atget infatti sottolinea come tutte le sue immagini siano vuote: «Vuota la Porte d’Arcueil, vuoti gli scaloni d’onore, vuoti i cortili, vuote le terrazze dei caffè, vuota, come si conviene, la Place du Tertre. Tutti questi luoghi non sono solitari, bensì privi di animazione; in queste immagini la città è deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini» (ivi, p. 71).
Il vuoto dell’immagine è anche un vuoto d’azione e quindi di narrazione. Se l’azione dell’uomo scompare allora cosa resta se non lo sguardo dell’artista, il suo stile? La presenza umana nell’immagine porta con sé una dimensione narrativa a cui in sua assenza se ne sostituisce una puramente contemplativa, come la scena di un luogo di un delitto in cui manchi il soggetto principale, il cadavere (è sempre Benjamin, come noto, a utilizzare questa metafora a proposito del fotografo francese). Una fotografia che, pur misurandosi con i dettami della documentazione, la oltrepassa.
Se riprendiamo la distinzione pasoliniana tra cinema di prosa e cinema di poesia (tra un cinema narrativo che “non fa sentire la macchina” e un cinema in cui, attraverso un uso pretestuale della soggettiva libera indiretta si libera lo sguardo del regista, Pasolini 1991, pp. 167-187) potremmo allora azzardare — spostandola su un piano leggermente diverso — un’analoga distinzione in fotografia, il cui discrimine potrebbe essere proprio la presenza umana. Ecco allora che se da una parte ritroviamo tutta la tradizione della fotografia umanista (quella di Cartier-Bresson, dei fotografi della Magnum, in generale, della mostra/evento The Family of Man…), dall’altra troveremmo una fotografia nella quale proprio la scomparsa dell’uomo libererebbe lo sguardo, lo stile dell’autore.
Uno sguardo “lungo” che segna un evidente distanza rispetto al principio bressoniano dell’istante decisivo. È quello che accade in Basilico: «Ho scoperto “la lentezza dello sguardo”. Uno sguardo lento, come era stato per Eugène Atget o Walker Evans, uno sguardo che mette a fuoco ogni cosa, che porta a cogliere tutti i particolari, a leggere la realtà in un modo assolutamente diretto: quindi il grande formato, il cavalletto, un ritmo rallentato, la luce così com’è, senza filtri, guardare e basta» (Basilico 2007, p. 47).
Ora, questi stilemi, tutti propri dello “stile documentario” (la frontalità, la chiarezza, ecc.), che dovrebbero assicurare una sorta di cancellazione della soggettività dell’autore, sembrano al contrario evidenziarla, liberarla appunto. Da qui la scelta dei curatori della mostra Metropoli di procedere per assonanze e dissonanze di immagini di città diverse (Milano, Roma, Beirut, Palermo, Napoli, Barcellona, Madrid, Lisbona, Parigi, Berlino, Buenos Aires, Gerusalemme, Londra, ecc.) realizzate in un ampio arco di tempo (dai settanta ai duemila).
Perché quello che è in gioco è la costruzione di «spazi qualsiasi», di «paesaggi deumanizzati» (Deleuze 2017, p. 8), dagli infiniti possibili raccordi. Ed è qui che possiamo ritrovare un’altra influenza, questa volta cinematografica, nelle fotografie di Basilico, quella di Antonioni. La sequenza finale di L’eclisse (1962), con i suoi spazi vuoti e abbandonati, è l’esempio perfetto di quell’uso pretestuale della soggettiva libera indiretta che in Antonioni, secondo Pasolini, attraverso la nevrosi dei personaggi permetteva all’autore di liberare la sua visione «delirante di estetismo» (Pasolini 1991, p. 181).
Forse è proprio nel primo capitolo che apre la mostra, quello dedicato a Milano. Ritratti di fabbriche, progetto sulla periferia milanese realizzato nel 1981, che tutto questo prende una evidente forma. La frontalità usata per ritrarre gli edifici della zona industriale milanese; l’estrema luminosità che consente alle facciate delle fabbriche di stagliarsi nitide, vanno al di là di una pura esigenza di documentazione della forma dell’architettura industriale, per accendere a una dimensione altra, sacrale (“Sacralità: frontalità”, Pasolini). Anche perché, come ricorda Walker Evans, «un documento ha un’utilità, l’arte è davvero inutile. Perciò l’arte non è mai un documento, anche se può adottarne lo stile» (Evans in Lugon 2008, p.19).
Ed è attraverso questo “stile documentario” che, paradossalmente, l’immagine rifiutando la sua funzione di prova e attestazione, mostra lo sguardo dell’autore, il suo farsi via d’accesso per rendere visibile l’invisibile.
Riferimenti bibliografici
G. Basilico, Architetture, città, visioni. Riflessioni sulla fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2007.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Cinema 2, Einaudi, Torino 2017.
O. Lugon, Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920-1945, Electa, Milano 2008.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1991.
Gabriele Basilico, Metropoli, a cura di G. Calvenzi e F. Maggia, Palazzo delle Esposizioni, Roma 25 gennaio – 13 aprile 2020.