L’attesa e il successo della terza stagione di GomorraLa serie sembrano ribadire che l’opera di Sollima è stata e continua ad essere un importantissimo fenomeno mediatico e mediale. Nei due giorni di proiezione al cinema dei primi episodi, la serie ha fatto registrare incassi record, generando un interessante cortocircuito tra cinema, tv e web. La proiezione in sala di Gomorra – La serie può essere infatti vista come un inaspettato esito di quel processo di rilocazione del cinema, per cui dal film alla serie, il racconto per immagini è uscito dalla sala, si è ibridato con nuovi linguaggi e nuove forme produttive (le serie, ma anche la rete), per poi ritornare al cinema rinnovando l’esperienza stessa della sala buia.

Senza entrare allora nel merito della stagione in corso vorrei prendere in analisi Gomorra innanzitutto come dispositivo mediale, partendo dall’assunto che, dal punto di vista di una teoria dei media, l’universo narrativo transmediale di Gomorra rappresenta un oggetto privilegiato. I dieci anni o poco meno, infatti, intercorsi tra la pubblicazione del libro e la messa in onda della prima stagione della serie, coincidono esattamente con la rivoluzione digitale che ha portato alla configurazione mediale attuale, dominata dai social network e dalle tecnologie mobile.

Gomorra (il libro) era il risultato di un lavoro giornalistico e letterario condotto in un’epoca molto diversa da quella in cui viviamo attualmente, un’epoca in cui la circolazione di informazioni e notizie era organizzata secondo una struttura gerarchica. Il testo di Saviano può essere considerato come l’ultima (e proprio per questo più estrema) forma di una comunicazione top-down. Seguendo il concetto di New Italian Epic, proposto da Wu Ming, possiamo dire che il testo era naturalmente predisposto ad aprire uno spazio narrativo transmediale, ovvero a tradursi e a diversificarsi in differenti formati  e prassi mediali, tra cui quelle tipiche della rete che, proprio in quegli anni, cominciavano a svilupparsi e a diffondersi.

La  scrittura di Saviano trasforma la testimonianza in narrazione, lavorando secondo una modalità tipica dei media all’inizio del millennio, ovvero quella della rimediazione. L’immediatezza della testimonianza, espressa attraverso continui rimandi alla persona dell’autore-narratore, ai suoi vissuti personali, alle sue emozioni e sensazioni, risulta efficace solo perché ipermediata da una stratificata struttura narrativa, che si avvale di una grammatica simbolica riconducibile al racconto epico e al romanzo. Le tracce di questo lavoro di ipermediazione sono rappresentate da quel linguaggio e dal quel pathos tipici di una certa narrazione. Come è noto, il libro non procede seguendo una linearità riconducibile all’evolversi di una storia, ma dà vita ad una un’armonia rapsodica, un montaggio intermediale in cui convergono eventi, storie, personaggi, impressioni, figure di finzione, ricostruzioni giornalistiche, verbali giudiziari, dati economici, pensieri, giudizi e molto altro. Saviano autore e narratore, macchina in soggettiva che attraversa le strade di Gomorra, ma anche regista del montaggio dei fatti e delle vicende, dei documenti raccolti, delle esperienze vissute e di quelle ascoltate, rappresenta il fragile punto di equilibrio e di mediazione tra la verità della cronaca e la potenza della finzione.

Analogamente la regia di Matteo Garrone, nel film, svolge lo stesso ruolo di mediazione, sebbene con esiti diametralmente opposti a quelli del libro: alla debolezza narrativa del testo letterario corrisponde nel film la dilatazione della narrazione, l’indugiare della sceneggiatura e della regia sui personaggi e sulla loro parabola negativa. E se nel libro la veste letteraria ed il montaggio servivano come strategia retorica, dispositivo di ipermediazione, per guadagnare una distanza che paradossalmente garantiva la sua efficacia testimoniale, nel film questo medesimo intento viene perseguito a parti rovesciate. Laddove nel libro la testimonianza diretta e i documenti d’archivio si avvalevano dell’orizzonte retorico e simbolico tipico della finzione, qui è la finzione che segue la grammatica di un’inedita forma di realismoMorreale ha parlato di “eccezione Gomorra” – una forma ipermediata in cui però vi è un esplicito rifiuto di qualcosa come il cinema di genere, ad esempio il poliziesco.

Gomorra – La serie rinuncia completamente ad utilizzare la regia come strumento di mediazione tra le vicende dell’azione e lo sguardo dello spettatore. Nel caso della serie tra la narrazione e lo spettatore non si frappone un lavoro sull’immagine in grado di disegnare un senso, per quanto vago o indeterminato, che vada oltre le vicende narrate e attraverso cui lo spettatore possa orientarsi. In Gomorra – La serie lo spettatore è completamente solo dinanzi all’immediatezza del racconto per immagini, che gli si presenta senza alcuna mediazione, sprovvisto dell’aiuto di uno sguardo terzo (nel libro incarnato dal racconto in prima persona di Saviano e nel film dall’esposizione del lavoro di regia sull’immagine) che in una certa misura faccia da guida (etica) al suo giudizio rispetto alle vicende narrate.

In questo lavoro sull’immediatezza del racconto, e pur facendo riferimento ad un orizzonte culturale fortemente connotato in senso regionale (a partire dall’utilizzo del dialetto napoletano come lingua principale del racconto), la serie è riuscita a rinnovare l’immaginario mediale italiano e a configurare un sentimento collettivo identitario che ha percorso trasversalmente l’Italia intera, valicando i confini nazionali stessi. Le ragioni di tale rinnovamento vanno ricercate nella configurazione mediale del dispositivo seriale messo in piedi da Stefano Sollima (show runner  della serie) e possono essere rintracciate almeno in due aspetti: la peculiare modalità di rappresentazione della criminalità organizzata (il film di genere di Sollima) e l’uso del dialetto e la sua tipizzazione (ovvero la diffusione della serie attraverso la rete).

La regia di Sollima configura un dispositivo narrativo totalmente immersivo, basato sull’incontro tra rapidità ed efficacia dell’azione e imponenza della fotografia (le luci al neon fanno da contrasto al buio in cui operano i camorristi). Da questa azione reciproca deriva un ritmo serrato che evoca continuamente un altrove, fortemente caratterizzato – Le Vele di Scampia, i cunicoli con gli altarini votivi, gli angoli di strada in cui i ragazzi ascoltano la nuova musica rap napoletana. Lo spettatore è chiamato a riconoscere e ad accettare tutte le regole che dominano questo altrove. Il racconto seriale, infatti, ci presenta deliberatamente un mondo in cui vigono soltanto le dinamiche del potere criminale: vengono rappresentate esclusivamente la violenza e la devianza del Sistema. In questo modo la narrazione contravviene palesemente ad ogni principio di realismo: non c’è fuori campo, ovvero non c’è istituzione sociale, civile o statale che rappresenti un’istanza alternativa a quella del potere camorristico. In quei rari casi in cui vi sono delle figure antagoniste esterne riconoscibili – come ad esempio i due poliziotti che arrestano Don Pietro (S01E02) o il capo delle guardie carcerarie (S01E03-04) o la poliziotta nel primo episodio della seconda stagione fino ad arrivare all’uomo ucciso su ordine di Genny nel sesto episodio della terza stagione – queste vengono rappresentate in modo asettico o completamente estraneo al tenore narrativo del racconto, quasi come delle comparse che rispondono ad un copione standard, figure accessorie che servono solo a sottolineare l’efficacia dell’azione criminale.

Non c’è, dunque, un personaggio di congiunzione tra il dentro e il fuori del racconto; e la regia di Sollima crea un effetto di trasparenza del racconto, di contro all’opacità di quella di Garrone. Ciò che si produce, allora, nell’esperienza dello spettatore è il continuo tentativo, ogni volta vano, di trovare una posizione, una prospettiva stabile rispetto ai fatti narrati ed un destinatario legittimo di quel sentimento di empatia che la narrazione suscita. Chi guarda è costretto a mettere sempre in discussione la propria posizione, a rinegoziare ogni volta cosa è disposto a tollerare, diremo quasi a giustificare, e cosa no. Tale rapporto dialettico tra spettatore e narrazione è possibile solo in virtù del fatto che i personaggi non sono mai eroici, sebbene certamente tragici. L’empatia dello spettatore si sposta di personaggio in personaggio, ma nessuno potrà mai corrispondere alla pur provvisoria vicinanza accordatagli dallo spettatore.

Eppure c’è un elemento che congiunge il campo e il fuori campo del racconto. Gomorra è stata la prima serie ad essere recitata completamente in napoletano, un napoletano addomesticato ad un uso più o meno standard, eppure non a tal punto da non richiedere l’uso dei sottotitoli. Evidentemente questa scelta risponde ad un’esigenza di realismo: era impensabile poter mettere in scena il crimine campano lasciando recitare gli attori in italiano. La lingua, tuttavia, rappresenta l’unico elemento di continuità tra il dentro e il fuori del racconto, tra la narrazione e il suo fuori campo, tra il mondo claustrofobico di Gomorra e tutto ciò che è fuori da esso. Ed è proprio in questa lingua, che è al di sopra del confine che separa la legalità dall’illegalità, che si esprimono i protagonisti, ricorrendo molto spesso a frasi, perifrasi ed espressioni che vengono utilizzate nella vita comune, e che pertanto non possono essere ricondotti esclusivamente al codice criminale.

Una di queste espressioni che ha trovato molta fortuna tra il pubblico di Gomorra – La serie è «Stai senza pensieri».  Essa è diventata una specie di mantra che accomuna gli spettatori della serie, una sorta di motto nel quale si riconosce la comunità degli appassionati. La frase viene rivolta per la prima volta da Ciro ad Attilio e di lì in poi «Stai senza pensieri» diviene il campanello d’allarme per avvertire lo spettatore che qualcosa di violento e tragico sta per accadere.

Ma «Stai senza pensieri» diventa anche uno degli elementi attraverso cui si è concentrata la viralità della rete, inaugurata dai video dei The Jackal, attivata dai due meccanismi caratterizzanti della cultura partecipativa online, ovvero l’appropriazione e il montaggio. I video di Gli effetti di Gomorra sulla Gente sono realizzati esattamente a partire da questa grammatica utilizzata in rete. Il momento appropriativo consiste nella selezione delle frasi e delle battute più efficaci, riproposte in una nuova forma rappresentata attraverso la performance imitativa dell’attore che interpreta Cavastano.

Questo processo di riappropriazione della rete è l’esito sì parodistico e comico, ma al contempo elaborativo di quel processo di identificazione che la serie non permette. Savastano diventa Cavastano, lo spettatore-utente se ne appropria e solo a questa condizione è possibile una identificazione. Tale appropriazione passa innanzitutto per una riappropriazione (nazionale questa volta, non più regionale), della lingua, del dialetto napoletano. I The Jackal, in questa operazione di decontestualizzazione e riattivazione dei personaggi, lavorano con il dialetto e sul dialetto, ibridandolo con la sintassi della rete. Attraverso questo processo, dunque, si ridisegna, si crea lo spazio per un sentimento comune, un ethos che caratterizzano un’ampia comunità (non più soltanto regionale) che ora in quella lingua rimediata si riconosce. Ciò che si produce è la totale ed efficace ridicolizzazione della camorra e del suo codice. Dopo Gli Effetti di Gomorra sulla Gente, la frase «Stai senza pensieri» non può essere più pronunciata dai protagonisti, perché significherebbe evocare quel fuori campo intermediale che non può comparire nella narrazione, affinché questa possa sopravvivere.

Quella che emerge, dunque, è una identità collettiva mediale, che è per sua natura esposta, precaria, sempre pronta ad essere oggetto di un nuovo processo di riappropriazione, decostruzione e montaggio. Forse ciò che Gomorra – La serie ci insegna, più di ogni altra cosa, e che sempre più la nostra identità collettiva verrà a definirsi sul confine tra il dentro e il fuori del racconto, tra il cinema e la rete.

Riferimenti bibliografici
AA.VV., Un altro mondo in cambio. Gomorra fra teatro, cinema e televisione, “Arabeschi” n. 10.
J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e Associati, Milano 2003.
F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015.
A. Maiello, Gomorra – La serie. La famiglia, il potere, lo sguardo del male, Edizioni Estermporanee, Roma 2016.
P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010.
A. Napoli, M. Tirino, Gomorra Remixed. Transmedia Storytelling tra politiche di engagement mainstream e produttività del fandom, Series, n. 2 (2015), pp. 193-206.

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