Le ritroviamo piccole, Anna ed Elsa, all’inizio di questo sequel. Un nuovo flashback che aggiunge un pezzo di passato alle vite delle due sorelle più amate della Disney. Anche perché in tutta la produzione della gigante industria del cartone animato ci sono solo loro due, di sorelle (almeno come assolute protagoniste). Questo è in effetti, riflettendoci, uno dei maggiori punti di forza di Frozen — il primo film, il secondo, i cortometraggi realizzati tra l’uno e l’altro, senza distinzione —, una delle ragioni principali che ha portato questo format a sbancare, in passato e oggi nelle sale, affascinando milioni di spettatori (non solo bambini).
La bionda e la bruna, la “magica” e l’“ordinaria”, la maggiore e la minore. Le avevamo lasciate nel loro regno, ad Arendelle, finalmente unite e lontane dal pericolo. Tutto il primo film raccontava la crisi interiore di Elsa, la principessa primogenita, temuta per la sua stregoneria da “fata dei ghiacci” e spinta dagli stessi genitori a stare lontana da tutto e da tutti. Anche dall’amata Anna, con cui da piccola si divertiva a fare pupazzi di neve e a cui un Troll risucchia la memoria sottraendole la consapevolezza di avere una sorella speciale.
Frozen – Il regno di ghiaccio (2013) si presentava al pubblico, fin da subito, come un capovolgimento del consueto rapporto con il “superpotere”. Nel primo film l’“eccesso” alla realtà non salvava, al contrario rappresentava una minaccia (un po’ come all’inizio di un’altra famosa saga Pixar, Gli Incredibili). Il sovra-normale andava rimosso, trasformando quella che poteva essere una potenziale splendida principessa bionda dai capelli fluenti e i grandi occhi azzurri in una ragazza con i capelli raccolti, vestita di scuro, le palpebre calate e la voce sommessa. La prima puntata della saga, ripensandola dopo la visione del suo seguito, è in effetti la buia narrazione di una repressione — a cui si aggiunge come se non bastasse la morte in mare dei genitori delle principesse —, almeno fino a quando Elsa non si abbandona alla rabbia, unico canale di confessione che fa sì che la sua essenza esploda riportandola gradualmente tra le braccia della sorella minore.
Che cosa catturava allora così profondamente gli spettatori? Di sicuro non solo i saltuari sketch di Olaf, il pupazzo di neve reso poi protagonista di un breve spin off (Frozen – Le avventure di Olaf, 2017), o quelli di Kristoff, il venditore di ghiaccio amico delle renne che goffamente diventa il dolce amante di Anna. Lo spazio vincente di Frozen, che giunge nel secondo film a piena maturità, si colloca da un’altra parte, e precisamente sulla soglia tra due stati emotivi: la repressione e la libertà. Il primo legato ad una forzata normalità, il secondo al superamento di un confine tutt’altro che sottile, verso la magia (e quindi, verso la vita).
Conceal, don’t feel, recita il titolo di uno dei brani musicali più di successo di Frozen I. “Nascondi, non sentire”. Elsa è un’eroina snaturata, viene costretta e si auto-costringe in uno spazio non suo, entro dei limiti inappropriati. Impedisce così, per quasi tutta la prima pellicola, che il film stesso si manifesti nella sua forma più completa. Ma la Disney compie un’operazione intelligente, dosando le energie in modo da rispondere all’implosione di Frozen I, che pure condensava nell’attesa tutto ciò che è venuto dopo, con l’esplosione di Frozen II – Il segreto di Arendelle, che ripaga pienamente il pubblico e le sue ben riposte speranze.
Se il primo film si muove quasi interamente nel dominio del “nascondimento”, il secondo è tutto e soltanto “sentimento”, e animazione ed effetti speciali si scatenano magistralmente a servizio dell’avvenuta catarsi del personaggio. Dopo una parziale regressione iniziale in cui vediamo le due piccole principesse ascoltare a bocca aperta la storia della buonanotte del papà a proposito della foresta di Arendelle, separata dal regno da una diga e destinata ad essere avvolta dalla nebbia a causa di un misterioso incantesimo, Anna ed Elsa ricompaiono ai nostri occhi grandi, serene, capaci di gestire la loro differenza radicale. Accade però che Elsa senta una voce melodiosa che la spinge a liberare quella foresta maledetta e a scoprirne il segreto. Questa volta, memore del passato, quasi subito le dà ascolto, assecondando la sua natura e permettendo al film di “sbrinarsi” a sua volta e farsi travolgere dalle sue peripezie.
Non è tanto interessante analizzare i passaggi della storia, anche se avvincenti e sottilmente concatenati, quanto sottolineare come il film funziona perché ha saputo aspettare il suo personaggio. La bella animazione di Frozen II deriva direttamente dai superpoteri di Elsa, dal controllo che ne ha assunto e dalla progressiva forza in cui questi evolvono. Più la principessa si trasforma in ciò che è, più le forme animate riempiono lo schermo di emozionanti risoluzioni formali. Non è un caso che il cartone animato sia diventato celebre soprattutto nelle sue scene musicali, quelle cioè in cui non c’è azione ma solo ghiaccio, colore, artifici, parole e note che incalzano la metamorfosi e la fusione con il mondo della natura. Lì, in quel limbo tra potenza e atto, concealing e feeling, l’animazione interviene in ciò che per definizione la connota: la capacità di sottrarre la forma al suo contorno, toglierla dal nascondimento e darle molteplici vite.
E in effetti la materia prima su cui si basa l’intero story concept è l’acqua, per eccellenza capace di modellarsi elasticamente dallo stato solido a quello liquido. Nei suoi scritti su Disney Ejzenštejn parlava del fuoco e citava Gli incendi di Gor’kij, associando le fiammelle costantemente mutevoli al flusso in perpetua rigenerazione delle forme animate e delle note musicali che le accompagnano. Ma nello stesso elenco citava anche l’acqua, come elemento capace della stessa, dinamica, metamorfosi — e anzi più “manualmente” gestibile di quella del fuoco.
Dal congelamento alla massima fluidità, l’acqua attraversa un’estesissima gamma di passaggi di stato che replicano nella materia quelli che la principessa dei ghiacci attraversa dal punto di vista umano. La Disney parte da una condizione fisica irrigidita (frozen) — quella della principessa, ma anche, di rimando, del primo film — operando magicamente la “liquefazione” di un personaggio e della forma che lo racconta. È in primo luogo questo, che rende virale il fenomeno “Frozen”.
Elsa non trova (né cerca) l’amore, né nel primo né nel secondo film. E se c’è una cosa che le principesse Disney fanno categoricamente, è proprio questa. Il suo è un protagonismo fuori dagli schemi, spesso anche “fuori campo” — Anna è molto più “in scena” della sorella, anche se sempre votata a salvarne le sorti. La dimensione in cui vive Elsa è invece una dimensione prettamente psichica, che non ha posto per agenti esterni fin quando non si risolve dal suo interno.
Questo ripiegamento del personaggio porta necessariamente ad una sua vicinanza “tribale” con la materia stessa, con la natura e le strane (innumerevoli nel film) creature che la vivono. Non è la prima volta che la Disney indaga l’animismo e una condizione primitiva in cui «tutto è connesso con tutto» (citando Ejzenštejn ancora una volta). Nonché l’esperienza di riconoscere accanto a sé una creatura uguale eppure del tutto diversa, allontanata drasticamente dal mondo umano e immersa in un mondo primordiale, più antico ma meno familiare. In un certo senso non siamo lontani da un classico come La bella e la bestia (1991), ma più sottilmente legati al mondo di Frozen sono due casi più recenti: il protagonista Inuit di Koda fratello orso (2003) e il suo rapporto con un fratello ridotto da un sortilegio in una belva feroce, e Ribelle – The Brave (2012), in cui questa volta è la madre della principessa ad essere trasformata in orso e la protagonista è chiamata a reinventare con lei un rapporto filiale.
E arriviamo così all’importanza radicale del nucleo familiare, scelto non a caso, nella particolare declinazione della sorellanza, anche per Frozen. Il nodo più forte che la storia deve stringere per sopravvivere è un amore diverso da quello canonico. È l’amore di una sorella minore che lavora alacremente alla felicità della maggiore, spinta da un legame viscerale e da una dedizione che sarebbe stato difficile raccontare attraverso la figura maschile di un principe. Sangue del suo sangue, Elsa risveglia in Anna il sentimento puro dell’accudimento. Un accudimento invertito, nel loro caso: la minore si prodiga per la salvezza della maggiore. Ma non esiste gerarchia, solo il fondamentale bisogno di essere ciò che si è. Ed Elsa è quel “quinto spirito” che collega il mondo della magia a quello umano. O forse, più essenzialmente, il suo personaggio intercetta l’intervallo in cui qualunque soggetto, per come è, impara ad esistere nel mondo che decide di abitare.
Riferimenti bibliografici
S. M. Ejzenštejn, Walt Disney, SE, Milano 2015.