«Confesso che nell’America ho visto più che l’America: vi ho cercato un’immagine della democrazia stessa». Queste parole di Tocqueville, tratte da La democrazia in America, non sono le prime e non saranno le ultime a dirci che l’America è sempre stata ben più che l’America. Lo sapevano già i Padri Fondatori (da Adams a Jefferson), e lo sapranno quelli che saranno i grandi cantori della nuova nazione, cioè i Trascendentalisti, in primis Emerson e Whitman. Per i quali la democrazia a nessun titolo poteva essere pensata come mero sistema elettorale ed architettura istituzionale: la democrazia definiva una vera e propria ontologia, con gli individui come modi d’essere e le relazioni tra essi come specifica attuazione di tale ontologia. Senza gerarchia e senza fondamenti che non fossero la libertà come destino e l’uguaglianza come riconoscimento del carattere comune di tale destino. Libertà e uguaglianza come contrassegni della democrazia determinano quello che ancora Tocqueville ha messo a fuoco prima e meglio di altri: «La democrazia non dà al popolo il governo più abile, ma fa ciò che il più impotente dei governi è impotente a creare: diffonde in tutto il corpo sociale un’attività inquieta, una forza sovrabbondante, una energia che senza di essa non potrebbe mai esistere» (2006, p. 261).

Questa inquietudine e forza sovrabbondante resiste ed è presente ancora oggi, e viene raccontata nel recente Frontiera di Francesco Costa, che «in un testo con ambizioni giornalistiche» (2024, p. 93) osserva e narra l’America oggi, e lo fa montando con intelligenza osservazioni, aneddoti e racconti eterogenei che riguardano sia le forme di vita ordinarie degli americani, di una «cultura centrata sulla risoluzione dei problemi» e sulla «propensione al rischio» (ivi, p. 85), sia il rapporto tra presente e passato.

Come quando si tratta di spiegare la violenza, sempre presente, ma che in fondo non turba un americano come turberebbe un europeo, perché se

in Europa i governanti hanno sempre avuto il monopolio nell’esercizio della violenza, che anzi hanno esercitato a lungo con libertà e crudeltà […], negli Stati Uniti è successo l’esatto contrario: le persone hanno esplorato  e conquistato una parte significativa del paese, come privati cittadini e non come rappresentanti di un governo o di un sovrano, molto prima che nascessero gli Stati Uniti d’America nella forma in cui li conosciamo. Nella vicenda nazionale statunitense la violenza è stata dunque spesso uno strumento di vita quotidiana, di liberazione, di affermazione di sé e di protezione dei propri interessi, dentro e fuori i propri confini (ivi, p. 185).

Il punto qui è decisivo: nessuna norma o ideologia può intervenire a cambiare ciò che la prassi nella sua effettività e nel suo depositarsi nel tempo ha determinato. Perché in quell’habitus, in quanto disposizione ad agire, c’è traccia dell’azione come elemento fondamentale del modo di essere e di esprimersi americani (di cui il Pragmatismo è stato solo la traduzione filosofica).

Se l’azione è il modo fondamentale in cui si esprime l’innovatività dell’uomo, la sua capacità di accedere al “nuovo”, per sottrarre il futuro all’inesorabilità della «necessità storica», come pensava Hannah Arendt (2009, p. 59), allora quest’azione porta con sé un potenziale di violenza, sia per il modo in cui incide e riconfigura le situazioni (con atti di liberazione o di conquista), sia perché ogni azione, essendo imputabile al soggetto che la compie, si dispone a reazioni vendicative. La violenza non è facilmente cancellabile se non si sospende la prassi, ma questa è difficile da sospendere, se non si vuole completamente rinunciare alla creazione del nuovo e alla espressione di sé nel mondo. E l’America a questo non vuole rinunciare, come già diceva John Adams: «È l’azione, non il riposo che costituisce il nostro piacere».

E dunque abbiamo, accanto a Walt Whitman, poeta del Nuovo Mondo che ha dato voce con i versi di Leaves of Grass alla nazione che lo attendeva, Hermann Melville, che in Moby Dick con il suo Achab ha dato vita alla Revenger’s Tragedy, come l’ha chiamata Matthiessen. La nascita epica e poetica di un nuovo mondo e la sua precipitazione tragica: i due poli sono indissolubili, e la bellezza della loro immaginazione letteraria è stata ineguagliabile. Così come la Conquista del West, l’epopea unica in cui la geografia ha definito il sogno americano di una frontiera sempre di nuovo oltrepassabile, è stata inscindibile dal massacro degli indiani. La violenza è l’altro lato della conquista, sono inseparabili. Gli americani lo sanno. Sanno che l’azione, e la grande azione, porta con sé anche distruzione (reale o simbolica). E lo sanno la letteratura e il cinema americani, che hanno continuato a raccontare tale epopea in tutta la sua magnificenza e complessità. Noi europei facciamo finta di ignorarlo, assumendo una postura da anime belle. Senza dirci ciò che sappiamo bene, che nel Novecento siamo stati capaci dell’inimmaginabile, cioè di mera distruzione e morte, separate da ogni idea di conquista e dunque di apertura del futuro.

Il mito della frontiera, «forse il mito fondativo per eccellenza» (Costa 2024, p. 230), è indissociabile dall’idea di esplorazione. L’esploratore è ciò che parte dal noto per andare verso l’ignoto. Questa è stata sempre la grande avventura americana. E non ha riguardato solo la conquista dello spazio e l’estensione della civiltà sulla wilderness, ma anche e forse soprattutto le avventure dello spirito, la fiducia in sé e nell’altro, come il vero motore del successo della democrazia americana. Come creare il nuovo? E come dargli parola? Per questo azione e poesia vanno di pari passo. È stato sempre così, in America, a partire dai Trascendentalisti che hanno importato e attuato valori ed idee del Romanticismo europeo, e hanno pensato l’azione un poema, come dice Whitman: «The United States themselves are essentially the greatest poem».

E con tale spirito di libertà e di avventura, di individualismo e di relazione, di democrazia ed esplorazione, di inquietudine e fermento, che gli Stati Uniti, che hanno il «patrimonio culturale più irripetibile rappresentato dai propri abitanti e la cultura più influente della storia dell’umanità» (ivi, p. 263), sono stati e sono sempre in condizione di rinascere e di ripartire, e individuano l’incarnazione massima di tutta l’ontologia occidentale della prassi e della libertà ad essa connessa, realizzata nel quotidiano dell’uomo qualunque.

E saranno in grado di superare anche lo stallo di oggi, determinato da un processo onnipervasivo di colpevolizzazione di tutto. Sia di chi tende a proiettare (come d’abitudine) sull’America i sensi di colpa che segnano l’Occidente, e che portano ad isolare nell’azione come forma alta dell’espressione dell’umano solo il resto che necessariamente la accompagna (secondo l’idea del dominio dell’“impero americano”); sia di chi, soprattutto all’interno dell’America stessa, ha attivato un processo acuto e violento di colpevolizzazione di tutto ciò che la tradizione occidentale è stata, incarnato dalle derive senza ritorno del politically correct e della cancel culture.

Qui il senso di colpa fagocita tutto l’orizzonte dell’espressione umana, l’uso del linguaggio e l’esistenza stessa dei manufatti e delle opere d’arte. Cancellando e colpevolizzando il linguaggio, si cancella la storia e la sua espressione con la pretesa paranoica di renderla trasparente, nuovamente innocente. È la malattia autoimmune della libertà, in cui questa si esercita come censura delle forme storicamente determinate in cui si è manifestata la libertà stessa, che viene letta come mera sopraffazione di una moltitudine di vittime.

Non è nient’altro che la forma “moralistica”, che ciclicamente ritorna, che mina la forza innovativa dell’azione rendendola colpevole e, proiettando tale colpa nel passato, rallenta la spinta stessa del desiderio e della sua “etica” orientata verso il futuro. Ma tutto questo non fermerà quell’immane fermento desiderante che attraversa comunque gli Stati Uniti: «In ogni momento e in ogni luogo che gli appartenga, gli Stati Uniti sono coinvolti da una miriade di fenomeni, alcuni piccolissimi e altri giganteschi, che cambiano il paese in modi anche piuttosto radicali: invenzioni, progetti, culture e sottoculture, idee, investimenti, volontariato, raccolte fondi, attivismo, studi, lotte» (ivi, p. 7).

Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2009.
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Einaudi, Torino 2006.

Francesco Costa, Frontiera, Mondadori, Milano 2024.

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