Non si vedono libri in France, l’ultimo film di Bruno Dumont, presentato in concorso alla 74esima edizione del Festival di Cannes. Nello sfarzoso appartamento di Place des Vosges in cui abita la protagonista, tra le opere di Gilbert & George e il design ipermoderno di un insieme che somiglia più a un museo che a una casa privata, non c’è spazio per una libreria e quasi non sembra esserci posto per i due familiari, ospiti tollerati a malapena in un universo che gira tutto intorno alla vita e all’immagine di France de Meurs, giornalista e anchorwoman di una trasmissione televisiva dedicata all’informazione da tutto il mondo. Un libro c’è, in realtà: è quello scritto dal marito Fred, un romanzo-saggio che serve solo come merce di scambio per la contrattazione di un’intervista alla diva del piccolo schermo – per avere France bisognerà poi invitare anche lui.
Se nell’inaugurare una nuova modernità cinematografica il cinema francese degli anni sessanta offriva un’apertura oltre di sé anche attraverso l’utilizzo di immagini anomale, come quelle statiche delle copertine dei libri, Dumont racconta oggi una contemporaneità sempre più chiusa su sé stessa che incentra la sua narrazione sull’immagine canonica della straordinarietà televisiva. Un’immagine frenetica che pretenderebbe di offrire uno sguardo sul mondo ma che con il mondo ha interrotto qualsiasi rapporto, trasformandolo in scenografia costantemente interscambiabile in cui è il mondo, al limite, a dover rivolgere all’immagine il suo sguardo, il mondo stesso a diventare un’immagine.
France de Meurs rivendica con orgoglio lo stile preciso che caratterizza e rende unico il suo approccio: un avvicinamento più sensibile a quel che si trova davanti, il tentativo di ricerca di un contatto umano; per questo, nel descrivere quel che fa, rifiuta di ricorrere al termine di messinscena. La realtà è però sempre più distante, scollata da immagini che non rappresentano nulla, che hanno smesso di credere alla possibilità di essere un mezzo per interpretare il mondo e sono diventate un fine in sé, lo strumento della costruzione di un universo in cui l’unico valore è il consenso. La realtà si costituisce allora come un vero e proprio non-io ed esiste solo in virtù dell’infinita attività (creativa più che creatrice) dell’io, di France. Lo si vede già nella sequenza che apre il film, in un dibattito con il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron nel quale le parole non contano più: posta la domanda ci si può disinteressare del resto, mentre la risposta viene sommersa dalle risate, dagli sguardi d’intesa e dal borbottio che crea un’intimità speciale tra France e la sua assistente Lou.
Quello di Dumont non è un lamento per la perdita della profondità né un elogio della superficie, ma un ritratto schietto e gioiosamente spietato del mondo contemporaneo. France è un’esponente della borghesia intellettuale dei nostri tempi, inviata di guerra e giornalista di riferimento del panorama culturale nazionale. Le immagini dei suoi servizi fanno un uso insistente dei primi piani e rifiutano qualsiasi profondità di campo, ma la sua sensibilità – esposta e rivendicata nei frequenti pianti, pubblici e privati, nelle crisi che periodicamente la colpiscono – non arriva ad avvertire l’esigenza di una distanza rispetto a ciò che narra, anche solo per mancanza di immaginazione e di empatia: lo spettacolo dell’orrore in tv diventa “bellissimo”, “fantastico”, “formidabile”, ed è ininfluente che si tratti di Paesi in guerra, di crisi migratorie o di altro. Il linguaggio stesso patisce il medesimo distacco dalla realtà: tutto diventa funzionale alla macchina della comunicazione, impedendo alla stessa France di interrompere la sua attività quando crede di voler ritrovare (o di poter cominciare a essere) sé stessa; un mondo ridotto a immagini le restituisce incessantemente la sua immagine, non può che costituirla come tale.
Qual è allora il suo posizionamento nel mondo? È possibile immaginare che abbia, ad esempio, un orientamento politico? A un certo punto qualcuno glielo chiede esplicitamente, durante una cena elegante nel corso della quale si raccolgono fondi affinché le grandi imprese si sostituiscano agli stati-nazione e costruiscano un nuovo ordine mondiale. La domanda – precisa, concreta, ancorata alla realtà – è frutto di un incontro fugace nella toilette e France risponde rivolgendo a sua volta una domanda all’interlocutrice, chiedendole che cosa cambierebbe se anche lo sapesse. L’interesse nei confronti della questione svanisce immediatamente: dopo averle chiesto un autografo, una telefonata fa dimenticare alla donna la sua stessa richiesta, smarrita in un qui e ora talmente labile da non assumere neanche la dimensione di un presente.
Questo qui e ora può nondimeno continuare a trasformare la vita. Si direbbe che un incidente, un amore ingannevole rimangano tutto sommato realtà ineludibili. Ma come si trasforma la vita di un’immagine? Cosa resta, della vita, a un’immagine? Il tentativo di recuperare la dimensione di uno spazio aperto, di uno scarto, la possibilità autentica di un gesto (anche di un gesto d’affetto) e persino la possibilità tout court, contro il soffocamento della dimensione del visuale – sono tutte questioni che un cinema desideroso di essere tale non smette di porsi e di rivolgere alle immagini che utilizza.
Queste domande sono qui incarnate nello sguardo sospeso di Léa Seydoux e diventano nelle mani di Bruno Dumont una materia e soprattutto una forma caratterizzata dalla più assoluta libertà. Il regista dà sempre più spazio a una vena comica e dell’assurdo che sottende da tempo il suo cinema, e mostra come padroneggiarla con audacia non significhi affatto smettere di interrogarsi sulle questioni fondamentali dell’esistenza. La forza di France risiede anzi nel tentativo di prendere quelle immagini e sporcarle, confonderle giustapponendo stili visivi diversi, rimuovere un po’ di patina trasformandole e sabotandole dall’interno. L’obiettivo manifesto è quello di disinnescare cliché e automatismi del pensiero e della percezione; tentare di ricostruire con pazienza la possibilità di uno sguardo sincero; provare a indagare se esiste ancora lo spazio per un po’ di umanità.
Se il personaggio di Irene in Europa ’51 è per Dumont un punto di riferimento (cfr. Macheret 2021, p. 37), una molla come quella rappresentata dalla morte del figlio nel film di Rossellini non funzionerebbe qui perché è del tutto scomparso un ambiente nel quale tentare di trovare una risposta alla crisi. Nella vita di France de Meurs non c’è fuori, non esiste alterità né trascendenza; per questo non si dà possibilità di scandalo, né tanto meno di raggiungimento della dimensione del sacro. È possibile trascendere la realtà di un’immagine, la realtà che è un’immagine? L’incapacità di guardare oltre sé stessi e la consistenza di una solitudine che occupa tutti gli spazi, trasformandosi essa stessa in ambiente e paesaggio, rendono inconcepibile l’idea stessa di “credere di vedere dei condannati”; nel mondo di France non ci sono altri con cui perdersi, e non è possibile nemmeno salvarsi da soli. Quel che resta – davanti a France e davanti a noi – è la percezione di una mancanza, la presenza di un vuoto molto complesso, e nello stesso tempo completamente piatto.
Riferimenti bibliografici
M. Macheret, Face aux robots humains. Entretien avec Bruno Dumont, in “Cahiers du Cinéma”, n. 778, luglio-agosto 2021.
France. Regia: Bruno Dumont; sceneggiatura: Bruno Dumont; fotografia: David Chambille; montaggio: Nicolas Bier; scenografia: Markus Dicklhuber, Erwan Le Gal; costumi: Alexandra Charles; musiche: Christophe; interpreti: Léa Seydoux, Blanche Gardin, Benjamin Biolay, Emanuele Arioli, Juliane Köhler; produzione: 3B Productions, Red Balloon Film, Tea Time Film; distribuzione: Academy Two; origine: Francia, Germania, Belgio e Italia; durata: 133 min.; anno: 2021.