Frammenti di un discorso amoroso

di MARCO DALLA GASSA

Abbas Kiarostami. Le forme dell’ immagine di Elio Ugenti. 

Il vento ci porterà via (1999).

La scomparsa improvvisa di Abbas Kiarostami nel luglio 2016 ha lasciato un vuoto profondo tra appassionati e cinéphiles, colmato, fin dalle prime settimane, grazie a una lunga serie di commosse e significative rimemorazioni: proiezioni dei suoi capolavori, retrospettive nelle cineteche, omaggi all’interno di festival, cineclub, università. Momenti spesso accompagnati da testimonianze di collaboratori o amici che gli sono stati vicini durante la sua carriera o dalla visione di materiali inediti o poco noti, come ad esempio 24 Frames, il film su cui Abbas stava lavorando durante gli ultimi mesi di vita e che è stato completato dai suoi collaboratori e poi distribuito postumo nel corso del 2017.

Anche la letteratura critica e quella accademica hanno contribuito a mantenere vivo il ricordo di Kiarostami, dando l’abbrivio a un processo di riconsiderazione critica e ri-sistemazione storica dei suoi lavori sia cinematografici sia riconducibili ad altri linguaggi espressivi. Cito, solo a titolo di esempio, il tributo che questa testata gli ha dedicato nel luglio del 2017, il numero monografico della rivista Mondo Niovo (n. 100, marzo 2017), oppure, fuori dai confini italiani, gli speciali di journals come Senses of Cinema (n. 81, dicembre 2016), Sequences (n. 305, dicembre 2016), 24 Images (n. 179, ottobre/novembre 2016), Iran Namag (n. 4, inverno 2017/2018), Eclipses (n. 62, luglio 2018) e così via. Non sono rimaste a guardare le case editrici e le University Press: negli ultimi mesi sono uscite la seconda edizione espansa di una monografia scritta da Mehrnaz Saeed-Vafa e Jonathan Rosenbaum per University of Illinois, Abbas Kiarostami and Film-Philosophy di Mathew Abbott per Edinburgh University, mentre in italiano, pochi mesi fa, Elio Ugenti ha licenziato Abbas Kiarostami. Le forme dell’immagine per Bulzoni (Ugenti 2018).

È a quest’ultimo testo che dedicheremo le righe che seguono perché – a differenza delle altre pubblicazioni citate – quella di Ugenti pone un’attenzione pressoché inedita alla dimensione intermediale dell’opera di Kiarostami. Il volume non è infatti una monografia tradizionale, diacronica, agiografica, che punta a ricostruire i passi di una carriera artistica individuando marche autoriali o ossessioni estetiche, semmai è l’insieme di alcune incursioni interpretative dentro film, installazioni, spettacoli teatrali, fotografie alla ricerca di quegli addentellati che connettono i lavori dell’artista iraniano ad alcune questioni teoriche e pratiche dell’attuale ecosistema mediatico.

Indagare la produzione artistica di Kiarostami significa […] necessariamente definire le peculiarità di quel “passaggio” dai film per la sala alle videoinstallazioni presentate nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo, oltre a prendere in considerazione la sua attività di fotografo per capire come tutte queste forme dell’immagine possano interagire tra loro in un percorso autoriale eterogeneo ma straordinariamente coerente (p. 10).

 

Bisogna infatti ricordare che l’effervescenza della più recente produzione kiarostamiana si segnala con particolare rilievo soprattutto al di fuori del tradizionale format del film di fiction. Dal nuovo millennio in avanti, sia a causa del sopravvenire di sempre maggiori difficoltà produttive in patria, sia per una contemporanea curiosità per la sperimentazione che scavalca costantemente linguaggi e domini artistici, Kiarostami indirizza i suoi sforzi creativi, sempre più solitari, sempre più indipendenti, verso la realizzazione di prodotti di straordinaria eterogeneità: cortometraggi, installazioni, mostre fotografiche, raccolte di poesie (proprie e altrui), spettacoli teatrali, ecc.

Ugenti intuisce, prima di altri, la portata di novità di questo disseminarsi della presenza autoriale e dell’ambizione estetica in forme artistiche difficilmente riconducibili a un’unità e prova in un’operazione quasi vintage nel panorama delle pubblicazioni accademiche: vale a dire ricondurre questa difformità a un’unità più grande, più intensa, individuando un discorso coerente sulla forma delle immagini (da qui il sottotitolo del libro) che consente al regista iraniano di inventare un proprio stile «estendendo il proprio tratto oltre la specificità del medium […] restituendoci un cinema che colpisce innanzitutto gli occhi, e rivendica la necessaria implicazione dello sguardo dello spettatore all’interno del suo tessuto formale» (p. 14).

Più precisamente, quello proposto dal libro è un percorso in tre tappe, ognuna incorniciata all’interno di un capitolo, che ospita incursioni e letture di singoli artefatti kiarostamiani: una prima è dedicata al rapporto tra narrazione filmica e sguardo; una seconda a quello tra costruzione dell’immagine e sguardo, una terza a quello tra natura intermediale di alcuni artefatti e sguardo. Se è nel primo capitolo del libro, quello consacrato alla dimensione evenemenziale, che si risolvono i principali debiti intellettuali che Ugenti contrae nei confronti della modernità del regista iraniano – egli propone in tal senso alcune incursioni in film come Dov’è la casa del mio amico? (1987), E la vita continua… (1992), Il vento ci porterà via (1999), per riflettere sull’indebolimento progressivo dell’azione come alternativa dichiarata a un modo di rappresentazione più standardizzato –, è nel secondo e terzo capitolo che trovano spazio, come si diceva, approfondimenti sugli aspetti “postmoderni” o se si preferisce contemporanei della sua opera: in film come Five (2003) e Shirin (2008), nelle rappresentazioni teatrali del Ta’zieh, nelle installazioni museali Sleepers e Summer Afternoon, fino alle mostre fotografiche e al postumo 24 Frames (2017) emergono spunti teorici, questioni di metodo, proposte ermeneutiche che attraversano (anche) i prodotti non cinematografici di Kiarostami per costituire un flusso argomentativo ampio, dispersivo, ma, come si diceva, tutto sommato coerente e coeso.

D’altra parte serviva un apparato speculativo solido per cogliere la specificità e l’arditezza del corpus kiarostamiano ed è per questa ragione che Ugenti decide di non prendere in esame alcune pietre miliari dell’opera di Kiarostami – come Close Up (1990), Sotto gli ulivi (1994) o i lavori degli anni settanta realizzati per il Kanun –, pur di lasciare il sufficiente spazio argomentativo ad apparati teorici con cui far dialogare e arricchire di senso singole pratiche artistiche. Ecco allora riferimenti a contributi di Deleuze, Aumont, Didi-Huberman, Casetti, Barthes, Elsaesser (e altri) che diventano necessari soprattutto quando si tratta di conciliare la ricerca di uno specifico filmico (il discorso sullo sguardo e sulle forme dell’immagine) e una serie di esperienze di visione che vanno ben al di là di quella della sala. Perché una delle caratteristiche che coglie perfettamente l’autore del libro è la trasferibilità da un medium all’altro dei soggetti rappresentati (alberi, porte, vetri, superfici riflettenti, strade, animali, bambini ecc.) a fronte di un significato che sostanzialmente non muta. Ciò che cambia – ci spiega Ugenti – è semmai il rapporto che intercorre tra lo spettatore e l’immagine, così come cambia il rapporto di intimità tra il creatore di quell’immagine e l’immagine stessa.

L’attenzione per la dimensione intima della creazione e della ricezione trova spazio anche nell’ultima parte del libro, nella quale Ugenti si concentra sugli ultimi due lungometraggi di fiction di Kiarostami, quelli forse meno apprezzati dalla critica e che nascono da un percorso di fuga ed esilio dagli abituali ambienti calcati dai personaggi dei suoi film. Ci riferiamo a Copia conforme (2010) e Qualcuno da amare (2012), realizzati rispettivamente in Italia e in Giappone. Nel rapporto speculare e simmetrico che intercorre tra lo scrittore inglese e l’antiquaria francese nel primo film (prima come coppia che si corteggia, poi come coppia in crisi) e in quello squilibrato e asimmetrico che si stabilisce, nel secondo film, tra l’anziano professore e la giovane studentessa (prima come cliente/prostituta, poi come nipote/nonno), Ugenti rivendica la presenza di un nuovo spazio relazionale che Kiarostami mette a punto riflettendo in maniera complessa e inedita sulla questione dell’identità: identità individuale, certo, di coppia, sicuro, ma anche narrativa, sociale e mediale.

Uno spazio, occorre aggiungere, che trova continue allusioni nelle dinamiche evenemenziali dei due film e nelle loro singole immagini, ma che naturalmente deborda dalla superficie limitata dello schermo per catturare un mondo in fuoricampo che si impone attraverso improvvisi affioramenti. Tra le tecniche più amate da Kiarostami in questo senso c’è l’uso sofisticato degli specchi e delle superfici riflettenti, già visibile ai tempi de La ricreazione (1972) o Il viaggiatore (1974) e poi continuamente riproposto nei suoi film (iraniani) più noti. Il libro di Ugenti chiude il cerchio di questo percorso sperimentale tra “mostrazione” e “integrazione narrativa”, tra rifrazione e speculazione, concentrandosi sull’analisi di alcune sequenze di Copia conforme e Qualcuno da amare nelle quali i riflessi degli specchi catturano momenti fondamentali del racconto e permettono una più intensa restituzione della complessità delle relazioni umane (e di coppia in particolare), dimostrando come una soluzione propria di una cultura (lo specchio è un archetipo ineliminabile nella poesia sufi e nella cultura persiana in generale) possa ricondurre ad effetti interpretativi diversi quando collocata in altri ambienti geografici o mediali.

La monografia pubblicata da Bulzoni si presenta come un agile strumento per riconsiderare l’opera di Kiarostami alla luce della sua produzione meno nota o indagata, delle teorie di cultura visuale più recenti e dibattute, dei momenti più salienti di alcuni suoi film. Se è ormai celebre la definizione di Godard secondo cui il cinema è iniziato con Griffith e finito con Kiarostami, questo e altri libri si fanno carico di smentire la provocazione del regista svizzero. Dalla lettura di questi studi si evince, infatti, che il cinema non finisce con Kiarostami, così come non è iniziato con Griffith; semmai registi con una forte personalità come Griffith e Kiarostami si prendono carico, più di altri, di farci pensare intensamente e pervicacemente al cinema, alla sua forza, ai suoi limiti e alle molteplici forme che può assumere. Tanto l’autore di Intolerance (Griffith, 1916) quanto quello di Dieci (Kiarostami, 2002) propongono, in altre parole, una pedagogia della forma e dello sguardo che per restare attuale deve trovare menti e orecchie che la accolgono e la condividono.

Da questo punto di vista Ugenti si unisce ai tanti studiosi e spettatori che si dimostrano debitori di questo approccio maieutico: nella struttura pulita del suo lavoro, nell’attenzione costante per le reazioni dello spettatore, nella scelta di soffermarsi sui film più romantici di Kiarostami, nella chiusura del libro che accoglie un’intervista con una delle donne più innamorate del regista iraniano (la curatrice e collezionista Elisa Resegotti) l’autore dimostra che le sue incursioni interpretative possono considerarsi non solo come il prodotto di una ricerca accademica, ma anche, per dirla con un altro filosofo francese, come i frammenti di un personale discorso amoroso.

Riferimenti bibliografici
E. Ugenti, Abbas Kiarostami. Le forme dell’ immagine, Bulzoni, Roma 2018.

Aggiungi ai preferiti : Permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *