È probabilmente il suo autoscatto più celebre, quello in cui la fotografa Francesca Woodman sembra voler sfidare le leggi di gravità sollevandosi da terra con un semplice gesto, quello di alzare le braccia e reggersi allo stipite di una porta – e del resto, Didi-Huberman lo dice bene: prima di essere atto o azione, sollevarsi è un gesto, forma del corpo dinamica, sopravvivente. Non sembra esserci sforzo: il corpo è immobile, leggero, coperto solo da una camicia che lascia invece nude le gambe dritte; la testa è nascosta, mentre la posizione delle braccia – tese verso l’alto – sembra voler sopperire all’assenza di due ali. Sulla sedia in primo piano, un telo sfiora il pavimento: panneggio.

On Being an Angel, “Diventare un angelo”, scrive la Woodman sotto un’altra fotografia scattata a Providence nel 1977. Così come di angeli raccontano alcune serie di fotografie – due, per la precisione, From Angel series e From a series on Angel, mentre altri scatti sono semplicemente intitolati Angels – realizzate negli anni tra il 1977 e il 1978, tra l’Italia e l’America. La prima fotografia qui richiamata alla memoria, invece, no: sappiamo che è stata realizzata a Roma, nel 1977, ma lo scatto rimane senza titolo. Eppure, non è un azzardo scorgere anche in questa foto l’allusione a una trasfigurazione celeste, una tensione verso l’alto.

In uno scatto di due anni più tardi, la Woodman metterà in scena un altro tentativo di “sollevamento”: realizzata a New York, la fotografia non è più in bianco e nero ma a colori, questa volta la Woodman indossa una gonna e una maglia dello stesso colore che, a sua volta, richiama quello delle pareti; a risaltare, però, è soprattutto il rosa che incornicia la porta – dello stesso rosa è anche un pezzo di tessuto che la fotografa tiene nell’unica mano visibile nello scatto – colore inusuale per uno spazio apparentemente domestico ma che, tuttavia, non sembra ospitare scene di vita quotidiana; a terra, sulla destra, c’è uno specchio; l’azione è invece all’altro margine dello scatto. Il corpo della fotografa sembra aver perso tutta la sua leggerezza: aggrappato alla struttura della porta, sembra soffrire tutta la sua gravità terrena, si aggrappa ma scivola verso il basso lasciando quasi presagire l’evento che porrà fine alla sua esistenza. Il 19 gennaio 1981 Francesca Woodman si toglierà infatti la vita gettandosi dalla finestra del suo appartamento di New York.

Sollevarsi, poi cadere. Sarebbe facile leggere l’intera opera di Francesca Woodman alla luce di questa opposizione, meglio: di questa inevitabile parabola. Se è vero che è impossibile conoscere le cause che hanno portato la fotografa al suicidio, avvenuto ormai quarant’anni fa, la tentazione di procedere a ritroso, assumere qui la tragica e precocissima fine – avvenuta a soli 23 anni – come lente attraverso cui rintracciare nelle sue fotografie pulsioni di morte, scorgere nel suo corpo – spesso senza volto – la volontà di cancellare se stessa, cambiare forma, diventare, insomma, evanescente, trasformarsi in altro – come nella serie House (1977) in cui la fotografa si dissolve diventando un tutt’uno con la casa – questa tentazione è, dicevamo, forte. E chi qui scrive, del resto, è appena caduta in questo errore associando lo scivolamento – o presunto tale – a un presagio di morte.

Perché quest’ultima foto fa parte di una sequenza di scatti realizzati nello stesso appartamento e che ci dicono però altro: in una, la fotografa è di fronte a uno specchio (dettaglio ricorrente nell’opera della Woodman), e la foto cattura il movimento di quella che sembra essere una danza – un relevé, come suggerisce Chris Krauss – e il corpo rimane inevitabilmente sfuocato. In un’altra, la fotografa è ancora davanti allo specchio, che tuttavia, questa volta, ha una posizione centrale, occupa quasi per intero lo spazio della fotografia; in piedi, leggermente piegata in avanti verso la sua macchina fotografica fissa sul cavalletto, la fotografa scatta, fotografando se stessa e l’atto del fotografare. Attestazione di presenza: io sono qui. Qualcuno potrebbe obiettare, dire che nelle pieghe del qui e ora si cela sempre un è stato altrove; la fotografia, in fondo, è sempre mortifera. Giusto, ma ancora una volta troppo semplice. Proviamo allora a interrogare le sue opere a partire da un alto dato biografico, ovvero dal mirabile estro contrappuntistico che caratterizza ogni vita umana e che in Francesca Woodman si traduce in anni di ricerca fotografica intensissima.

Francesca Woodman nasce a Denver nel 1958 da una famiglia di artisti: la madre era una scultrice, il padre un pittore e fotografo, il fratello un video artist. La giovane Woodman, dunque, non è estranea al mondo dell’arte, anzi: lo respira, lo conosce, ne ri-conosce le diverse forme. Inizia a fotografare molto presto, dopo aver ricevuto in regalo dal padre una macchina fotografica. Sono frequenti i viaggi in Italia, soprattutto a Firenze, e ad Antella i Woodman acquistano una casa dove trascorrere le loro estati. Italia, dunque: un altro elemento ricorrente nella vita della fotografa. A Roma, infatti, la Woodman trascorre un periodo di studio (tra il 1977 e il 1978) mentre frequenta la Rhode Island School of Design. Rientra negli Stati Uniti e, grazie a una borsa di studio, trascorre un periodo alla MacDowell Colony; nel 1979 si trasferisce a New York, dove rimarrà fino alla sua morte. La breve vita di Francesca Woodman è, dunque, costellata di passaggi, spostamenti, ritorni, che spesso vengono fatti coincidere con le diverse fasi della sua opera.

La Woodman non è semplicemente una bambina prodigio della fotografia, come spesso, erroneamente, si pensa. Possiede invece il mezzo fotografico, ne conosce il linguaggio (mosso, sfuocato, piani di ripresa, esposizione lunga, composizione) e le possibilità tecniche: dalle stampe alla gelatina fino all’utilizzo della diazotipia utilizzata per il progetto Blueprint for a Temple, del 1980, la Woodman sperimenta fino all’estremo unendo surrealismo e realismo, performance, fotografia di moda. Man Ray, Florence Henri, Claude Cahun, Bill Brand, Deborah Turbeville sono solo alcuni dei molti nomi che hanno influenzato il lavoro di Francesca Woodman; e poi ancora i rimandi alla storia dell’arte italiana, all’iconografia cristiana e alla mitologia greca, come negli scatti in cui il suo corpo emerge dalle acque del lago avvolto dalle radici di un albero come la ninfa Dafne.

Cosa vediamo, allora, negli scatti della fotografa? Francesca Woodman, principalmente, ma in alcuni scatti i corpi e i volti di amiche e del compagno Benjamin. Quello della fotografa non è narcisismo: alla sua amica Betsy dirà che fotografa se stessa perché il suo corpo è sempre disponibile. Comodità, insomma, ma certamente non solo. Il suo è un continuo sperimentare proprio – e soprattutto – a partire da quella disponibilità fisica: il suo corpo nudo o vestito, scomposto, maltrattato; corpo nascosto dietro teli, muri, come nella serie From Space del 1976, in cui la fotografa si mostra parzialmente coperta da carta da parati. Corpo adagiato sul pavimento di case abbandonate, disteso, corpo che balla, salta. È dunque sul suo corpo che si concentra una ricerca costante, ma soprattutto è sulla storia del suo corpo che si svela un’altra storia che è soprattutto la storia della fotografia stessa.

Ritorniamo, allora, ancora una volta alle due fotografie iniziali. Torniamo lì, dove Francesca Woodman, ninfa moderna, sembra resistere alla sua inarrestabile caduta, al suo rovinare lentamente verso il basso. Di lì a breve il suo corpo si sarebbe accostato al suolo, ma noi non possiamo ancora saperlo, non in quello scatto, almeno. Nell’immagine che sopravvive, la sopravvivenza si fa, spesso, soltanto immagine.

Francesca Woodman, Denver 1958 – New York 1981.

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