Se per i Lumière il cinematografo è un’invenzione senza futuro, per il Baudelaire del Salon del 1859 la fotografia è (nel ventennale della nascita) un’invenzione con troppo futuro per non essere un pericolo: «Se le si permette di invadere il dominio dell’impalpabile e dell’immaginario, soprattutto ciò che vale perché l’uomo vi ha aggiunto qualcosa della sua anima, allora sventurati noi!» (Newhall 2008, p. 119). Giusto un decennio dopo (1869) Henry Peach Robinson – già famoso per opere come Fading away, una stampa composita ottenuta da cinque negativi differenti – pubblica il saggio Pictorial Effect in Photography, destinato ad essere ristampato nonché tradotto in francese e tedesco. Ovviamente i tableaux vivants allegorici esistono già, disprezzati dai puristi dell’impronta ma apprezzati dal gusto retrò: si pensi che Le due strade della vita (1857) dello svedese Oscar G. Rejlander – trenta negativi e sei settimane di lavoro per un’immagine di cm 78×40 – viene acquistato nientemeno che dalla Regina Vittoria. Ma la teorizzazione esplicita di Robinson a favore della legittimità di “trucchi” e “magie” (è ancora lontana l’espressione “effetti speciali”) ben oltre il flou alla Julia Margaret Cameron o le pose favolistiche alla Lewis Carroll, nonché una pratica di progettazione che anticipa lo storyboard, lascia intravedere una linea che porta dritto alla galassia Méliès.
Che la fotografia “artistica” (per gli americani Pictorial Photography, perché i valori estetici di riferimento sono quelli della tradizione pittorica occidentale) si sviluppi dopo il 1888, cioè dopo l’invenzione della Kodak come simbolo della massificazione delle immagini tecniche, la dice lunga sulla necessità di rileggere la storia della fotografia nei termini di una concorrenza sul mercato delle icone: quando il ritrattismo alla Nadar è soppiantato dall’album di famiglia fatto con gli apparecchi automatici, la possibilità di vendere fotografie (attraverso mostre o libri) è relativa a un know how che oscilla dagli aspetti tecnici (es. la stampa su carta al platino di Peter Henry Emerson, autore nel 1889 del manuale Naturalistic Photography for Students of the Art) agli aspetti estetici (es. l’effetto “impressionista” della gomma bicromatata di Robert Demachy, che finisce col rubare le ballerine a Degas). Riassumiamo il percorso complesso del pittorialismo dichiarando la sua vittoria quando il gruppo di Photo-Secession, guidato dal magnifico quarantenne Alfred Stieglitz, è invitato ad allestire una mostra internazionale di fotografia pittorica all’Albright Art Gallery di Buffalo: è il 1910 e l’avanguardia fotografica approda al museo – proprio quando l’amico Picasso è ormai passato al cubismo.
La transizione dalla Pictorial Photography alla Straight Photography, affrontata da Stieglitz nel periodo in cui le avanguardie artistiche del Novecento portano a compimento le trasformazioni indotte proprio dalla fotografia e dal cinematografo (nel frattempo divenuto cinema sia narrativo che sperimentale), certifica la nascita di una nuova estetica funzionale: la fotografia viene dichiarata mezzo artistico “legittimo” proprio in base alle qualità “naturali” dei suoi mezzi tecnici; la fotografia “pura” non ha bisogno di effetti speciali e di manipolazioni pittoriche, ma solo di un approccio “diretto” (con mezzi alla portata di tutti, come le macchine portatili) a soggetti alla portata di tutti (dalle nuvole di Stieglitz ai peperoni di Weston). Non a caso questa è l’epoca in cui, pur persistendo l’etica del doppio o triplo lavoro artistico, tende a scomparire la figura del pittore-fotografo (Edward Steichen, che ha firmato come un quadro il suo ritratto di Rodin, abbandona nel 1920 non solo la carta bicromatata ma anche tele e pennelli) e ad affermarsi quella del fotografo-filmaker (Paul Strand, che nel 1921 gira Manhatta [senza la n finale], l’anno successivo stampa una foto in cui ritrae i meccanismi interni della sua cinepresa Akeley). Fine del pittorialismo?
Il fotografo e saggista David Bate (già noto per Il primo libro di fotografia), partendo addirittura da Atget (autore caro a Benjamin) per ricostruire i rapporti tra generi fotografici e sistema dell’arte del Novecento, definisce “nuova fotografia pittorialista” (nell’introduzione “nuova fotografia realista”) una forma culturalmente ibrida nata a fine anni 1970 ed esplosa internazionalmente nei novanta grazie a nomi come Thomas Struth, Andreas Gursky e Jeff Wall.
A differenza del pittorialismo ottocentesco, che era principalmente monocromo e artigianale, la gran parte della fotografia d’arte pittorialista contemporanea è a colori e stampata su vasta scala, industrialmente, in grandi formati che rivaleggiano con la pittura e a volte perfino con le immagini dei cartelloni pubblicitari. Quello che ne risulta è una nuova fotografia pittorialista, contemporanea nelle apparenze visive e nei soggetti, ai quali si applica una mediazione formale. La fotografia del nuovo pittorialismo si affianca da un lato alle immagini in movimento del cinema e dall’altro alla pittura, alla scultura e alla storia dell’arte (Bate 2018, p. 61).
Se Bate può dedicare un intero libro all’Art Photography senza mai definire il concetto, è proprio perché è il concetto stesso di arte che è stato continuamente decostruito nell’arco del Novecento: a metà degli anni ’60, giusto quando il sociologo Bourdieu presenta la fotografia come “un’arte media” priva di legittimità estetica autonoma, Joseph Kosuth annuncia che “l’arte dopo la filosofia” (il suo riferimento è la filosofia analitica di Ayer) è un’arte concettuale che può indifferentemente utilizzare (o non utilizzare!) qualunque mezzo – compresa la fotografia, che si vede così catapultata nel cuore di una creatività ormai sganciata dalla pittura e da qualunque estetica fondata sullo “specifico”.
Evidentemente quello che è successo nel Novecento è che il cinematografo, “invenzione senza futuro” basata sulla moltiplicazione della fotografia venticinque volte al secondo, è diventato il cinema come arte della modernità e dunque punto di riferimento artistico per tutte le altre pratiche, fotografia compresa. Se si guarda il curriculum degli artisti con cui il curatore di mostre David Campany (già autore sia di un Arte e fotografia sia di un Photography and Cinema) s’intrattiene in “conversazioni sulla fotografia”, notiamo che l’eventuale doppio o triplo lavoro raramente comprende la pittura ma piuttosto il cinema e il video: Daniel Blaufuks dichiara di non essere interessato allo scatto isolato, preferendo «la sequenza o il flusso di immagini, come in una sorta di prosa cinematica» (Campany 2018, p. 19); Lewis Baltz riconosce l’influenza di Antonioni nel suo desiderio di «realizzare un’opera che contenesse più immagini e fosse in qualche modo di natura cinematica» (ivi, p. 71); John Stezaker è diventato famoso per i suoi collage di fotogrammi cinematografici (ma ha cominciato con film in fermo-immagine); Victor Burgin rivela che l’ispirazione per la sua video-installazione Parzival (2013) viene da Germania anno zero; e William Klein ricorda quando faceva l’assistente per Fellini all’epoca di Le notti di Cabiria, lavoro culminato nel celebre fotolibro Roma uscito in contemporanea con La dolce vita.
L’unico vero fautore del tableau sembrerebbe Jeff Wall, diventato famoso con i suoi lightbox (pellicola retrolluminata) di grandi dimensioni e venduti come pezzi unici (ah, il ritorno dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica!) ispirati a Delacroix, Manet, Hokusai. Ma l’autore di Picture for Women (opera a cui Campany ha dedicato una monografia) vede la sua non come una posizione reazionaria (ritorno alla pittura) ma come un superamento dell’ideologia del realismo alla Robert Frank: «Per me il punto non è tracciare una divisione tra l’approccio o lo stile documentario e la cinematografia; io credo che la fotografia viva dell’infinito intreccio di sfumature tra queste modalità» (Campany 2018, p. 142). Il fotografo della vita neomoderna non è un neopittore ma neppure un neoreporter. È, senza dirlo né sentirselo dire, un regista.
Riferimenti bibliografici
D. Bate, La fotografia d’arte, Einaudi, Torino 2018.
D. Campany, Così presente, così invisibile, Contrasto, Roma 2018.
B. Newhall, Storia della fotografia, Einaudi, Torino 2008.