Fotografare il non-umano

A chi spettano le royalties di una foto scattata da un animale non umano? Questione non solo giuridica ma anche filosofica, come spiega Joan Fontcuberta nel suo ultimo libro, in un capitolo (intitolato “La postfotografia spiegata alle scimmie”) che riporta due casi degni di nota. Il primo riguarda il fotogiornalista tedesco Hilmar Pabel, che nel 1935 fornisce di Leica gli scimpanzé dello zoo di Berlino: il giornale che pubblica le immagini risultanti si rifiuta di dargli un compenso (non è lui ad avere scattato!), cosa che invece fa “Life” pochi anni dopo. Il caso più recente riguarda il fotografo naturalista britannico David J. Slater, la cui macchina è servita ad una femmina di macaco per realizzare (nell’anno del signore 2011) il primo selfie di un animale: anche in questo caso, Wikipedia ha usato l’immagine come prodotto anonimo (dunque di pubblico dominio) e l’associazione animalista Peta ha preteso il copyright a nome della scimmia sfruttata; ma nel 2017 un giudice ha stabilito che la fotografia appartiene a Slater, che l’ha piazzata sulla copertina del suo libro Wildlife personalities.

Il teorico della postfotografia argomenta che, nell’epoca dello smartphone e della rete mondiale, «non importa chi fa e da dove arrivano le immagini. Non importa se a crearli siano stati un animale o un bambino […] Ciò che prevale è l’assegnazione (o prescrizione) di senso all’immagine che adottiamo» (Fontcuberta 2018, p. 48). La teoria dell’adozione, però (perciò), elimina ogni possibilità di autorialità animale«Perché ci sia creazione che culmini in un’opera, bisogna che ci sia un’intenzione; perché vi sia intenzione, ci deve essere volontà; perché ci sia volontà, ci deve essere coscienza; e perché ci sia coscienza, c’è bisogno di un essere umano» (ivi, p. 65).

Se l’animale non può fare il fotografo, e tantomeno il postfotografo, può almeno fare il modello? Felice Cimatti, già autore di volumi come Filosofia dell’animalità (2013), s’è inventato un “metodo bestiale”: compra nei mercatini dell’usato vecchie fotografie con animali e, aprendosi poeticamente al punctum barthesiano, prova a lasciar apparire l’animalità (qualità incollocabile, poiché non appartiene all’animale ma piuttosto disappartiene al linguaggio), a farsi guardare (vedere) dall’animalità, a diventare lui stesso un animale. Il presupposto è quello di Derrida: les animaux di cui si parla nel discorso pubblico e privato sono des animots, “parole animate” la cui consistenza ontologica non è superiore ai “cartoni animati”; superare les animots è un salto oltre qualunque categoria culturale.

La serie fotografica sugli animali domestici riguarda soprattutto cani e gatti: che risultano disinquadrati perché inattesi, costretti alla posa in quanto testimonial dell’ambiente domestico del padrone, esposti all’occhio della macchina come coprotagonisti di un evento festivo; ma sempre tendenzialmente sfuggenti e indifferenti, inconsapevoli della performance pretesa fotogenica. Quanto agli animali definiti selvaggi, gli scatti trovati da Cimatti li immortalano per così dire imbalsamati, cioè paradossalmente fermi (mentre il vivente è per definizione movimento) se non addirittura morti (non era già Flusser ad aver notato la profonda assonanza tra shooting fotografico e caccia?); e comunque in contesti come il giardino zoologico, dove l’animale è ridotto a vegetale, il movimento è stretto nella cattività e l’animot si espone in tutti i suoi cliché da visita scolastica. In definitiva «ogni immagine animale è falsa» (Cimatti 2018, p. 21) perché l’occhio del fotografo è affetto da antropomorfismo.

Cambierebbe qualcosa se, anziché compulsare questo corpus anonimo, ci rivolgessimo a scatti autoriali? Apriamo La camera chiara di Barthes: troviamo “Il capolinea del tram a cavalli” di Stieglitz (1893) senza commento; “Notaio” di Sander senza annotazioni sulla presenza del levriero come connotazione di status; “La regina Vittoria” di Wilson (1863) dove il punctum è il servitore che tiene fermo il cavallo (se s’impennasse, che succederebbe alla gonna di sua maestà?); e in chiusura “Il cagnolino” di Kertész (1928) di cui si tace proprio il protagonismo dell’animale a favore del soggetto umano. Evidentemente, e nonostante la sua stessa definizione di oggetto profilmico, per Barthes l’animale non è uno spectrum: solo l’essere umano introduce nel noema della fotografia quell’elemento perturbante che è “il ritorno del morto”.

Apriamo Forme dell’impronta di Jean-Marie Floch (recentemente ripubblicato da Meltemi): la prima fotografia analizzata è “Fox-terrier sul Pont des Arts” di Robert Doisneau (1953); un complicato apparato concettuale (la semiotica di Greimas) viene applicato ad una complessa inquadratura narrativa che, di nuovo a dispetto del titolo, viene interpretata a partire dagli agenti umani.  Il fox-terrier viene introdotto alla fine dell’analisi come “attore surrealista” e “figura enunciativa”: un cane da guardia che, guardando in macchina e bloccando un passaggio del ponte, impedisce allo spettatore l’illusione di un possibile spostamento in direzione del centro dell’ immagine (dove si trova occultato il corpo forse nudo di una donna). L’autorialità della foto riduce l’animale a “soggetto delegato dell’enunciatore”, un emissario di Doisneau.

Concludiamo questa breve rassegna spulciando La bellezza in fotografia di Robert Adams, fotografo-teorico per il quale la definizione di bellezza si connette con la fede: «Ci sono molte fotografie importanti che non contengono la piena verità, che non rivelano la forma, che non ci mostrano la coerenza nel senso più profondo. Tra queste metto comunque alcune tra le immagini più significative che conosco, come Cane randagio di Daido Moriyama […]» (Adams 2012, p. 20).

Il cane del 1971, abbastanza famoso da esser stato citato nel finale di Blade Runner 2049, è troppo randagio: ripreso dal basso e a distanza ravvicinata, stampato senza grigi, esso non appartiene né al mondo domestico né alla natura selvaggia; è per così dire un animale ateo, che per l’iconofilia occidentale (cristiana) non può che risultare informe e incoerente. Il cane randagio è per l’estetica fotografica ciò che l’ebreo errante è per la politica hitleriana: un problema in attesa di soluzione finale.

Che succede allora se facciamo un viaggio nel fotoreportage animalista e andiamo a vedere lo sterminio zootecnico dal punto di vista del movimento di liberazione animale? Ciò che troviamo – ad esempio nelle foto a colori di Stefano Belacchi, del team investigativo Essere Animali (istituito nel 2011) – è non solo l’assimilazione dell’industria della carne ai campi nazisti (un’equazione già posta dal cartone animato Galline in fuga, non a caso prodotto dalla Dreamworks di Spielberg) ma il tentativo di utilizzare i primi piani per individualizzare il soggetto animale.

Il reportage di denuncia del dolore inferto agli esseri viventi non-umani (quasi-umani?) non può creare empatia se non spostando l’accento dal corpo-oggetto al volto: «Il ritratto è la grande ambizione della fotografia animalista, che restituisca agli animali il loro statuto di individualità viventi e non di cose» (Piazzesi 2017, p. 32). Ma se gli occhi sono lo specchio dell’anima, gli sguardi animali ci spingeranno oltre la soglia su cui (tabù alimentari a parte) si sono fermate le religioni storiche? Sarebbe un cambiamento epocale, leggere il dolore negli occhi dell’animale – così come vedere sul suo volto il sorriso mentre si sta scattando un selfie.

Riferimenti bibliografici
R. Adams, La bellezza in fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
F. Cimatti, Sguardi animali, Mimesis, Milano-Udine 2018.
J. Fontcuberta, La furia delle immagini, Einaudi, Torino 2018.
B. Piazzesi, Un incontro mancato. Sul fotoreportage animalista, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Share